di Alessandro Pertosa
Elisabetta Sancino, Collezione privata, Collezione Letteraria, Puntoacapo 2021, pp. 81
Poesia e pittura: parliamo di un rapporto antico, di contaminazioni reciproche, di dialogo continuo fra due arti capaci di testimoniare il mistero dello spirito, di sfiorare i bagliori dell’altrove, fino a farli riemergere dalle profondità dell’abisso. L’abisso nascosto in ognuno di noi. Slabbratura originaria e gorgo spaventoso, da cui sorge la luce dell’ispirazione.
Poesia e pittura, dunque: due modi di “fare” arte e di intercettare la realtà, che si incontrano contaminandosi; due slanci disperati con cui gli artisti provano a dire ciò che non si può dire, pretendendo di dirlo lo stesso, ma consapevoli di non esserne capaci. Le parole dei versi e i colori sulla tela sono grida lanciate all’infinito, nella speranza che un dio assoluto risponda. Ma quel dio assoluto, proprio in quanto absolutus, resta muto. A parlare è l’anima del mondo; è il desiderio di orrore e bellezza; è il grido di dolore e di gioia che si fa largo fra le trame della storia.
Da questo rapporto terribile e splendido fra pittura e poesia, prende forza Collezione privata, l’ultimo lavoro di Elisabetta Sancino, qui sotto forma di versificazione per immagini. Ci vuole talento per creare quadri con le parole e rendere visibile ciò che si scrive. E la Sancino ne ha. Da una lirica all’altra, conduce il lettore all’interno di una ipotetica galleria, in cui è possibile incontrare lo spirito dei quadri, e con quelli entrare in relazione di risonanza. D’altronde un’opera degna di chiamarsi tale piace, perché chi osserva con occhi disincantati il miracolo dell’arte, dinanzi a un verso o a una tela, sente vibrare il proprio cuore alla stessa lunghezza d’onda dell’autore. E la bellezza si fa spazio a forza di schianti.
L’arte non è qualcosa ma un luogo. È il luogo in cui l’attività umana prende corpo in forma armonica e risonante. Chi guarda viene contagiato dai sentimenti dell’artista, rivive lo stesso pathos, opera con simpatia e compassione, che vuol dire patire con qualcuno, ma anche esperire insieme qualcosa, per provare e vivere un piacere relazionale. Quando si opera con lo stesso pathos si finisce per compiere un atto di condivisione gioiosa e passionale che mira a riflettere il bello ovunque e in ogni istante. E ciò avviene perché l’opera d’arte contagia gli uomini che le si relazionano, e produce in tutti un nuovo palesamento del bello originario esperito dall’artista. E riconoscere il bello in un “oggetto artistico” significa mettere in risonanza la propria anima con l’opera, assorbendo ciò che è gravido di sogno.
E allora nel lasciarci condurre per mano da Elisabetta, lungo i corridoi di questa collezione privata, finiamo per entrare nei quadri, spalancando i confini dello spazio scenico.
Ho ordinato due once di guado
per il manto della madre
un colore barbaro, come il dolore
che stordisce le orecchie dei curiosi
accostate al ruvido della tavola
suona la sirena e il museo
si popola
di grida
e la madre non è più sola.
La madre della Imago pietatis non è più sola. La madre che piange il cadavere del figlio è ora parte di una comunità. La comunità dei lettori; la comunità di coloro che scorgono tra i versi di questa lirica il dolore, l’orrore e lo strazio di una donna a cui tutto è stato tolto.
Questa visita guidata in sei stanze - tante sono le sezioni del libro - si chiude con un intreccio perfetto di poesia e pittura, davanti a Il poeta che dorme, di Marc Chagall. Qui una poesia mostra il soffio vitale di un quadro, il cui pittore dipinge un poeta che dorme. E
nel prato il poeta è sdraiato
ha una giacca glicine
è immobile
ma non muore
non scrive dorme
non urla sogna
campiture rosa nel cielo dove la parola
non scritta vola.
La parola non scritta è il sogno del poeta, è l’intuito del pittore, il colore rosa, il cielo smisurato. Tutto bruciato nella poesia. Che appunto non è solo parola. Ma è anche vento, brezza, e un dolcissimo e tremendo palpitare.