di Davide Rondoni
Alessandro Bergonzoni da tempo lavora in pubblico sulla parola, ne teatralizza le possibilità, i giochi, le direzioni nascoste, ne svela le ambiguità e la gloria.
Nell'epoca in cui gli umani si scambiano più parole rispetto a ogni altro momento della storia, e un momento in cui le aziende più ricche del mondo han fatto fortuna (spesso ambigua e legata a trasformazioni del potere) con le parole (dai social ai big data), e dunque nell'epoca in cui è avvertita più chiaramente la difficoltà di una parola significativa, tra scialo e necessità, tra potere e impotenza, ecco il suo lavoro emerge a rifermento per molti, sia come indiscusso successo teatrale sia come riferimento intellettuale e anche civile. Nel momento in cui molti sono restati "senza parole" poiché quelle che avevano nutrito certi sogni o ideologie o prassi sono cadute o si sono "spuntate", ecco che i suoi monologhi apparentemente bislacchi sono divenuti un riferimento. Una nuova possibilità. Se ne parliamo in una rivista di poesia è perché il lavoro di AB, oltre che frequentatore della poesia e autore di libri, ci interessa.
Fossimo negli anni Sessanta, in preda agli smontaggi neoavanguardisti - a loro volta debitori fedifraghi e muti di certe trovate futuriste e d'altre avanguardie primonovecentesche - qualcuno si crogiolerebbe in esercizi todoroviani o sanguinetteschi. A tali avanguardie, va detto, Bergonzoni lettore curiosissimo è indubbiamente debitore, ma ora non ci interessano quelle anatomie letterarie o quei risultati spesso infrigiditi in accademie e fondati su quel che invece Bergonzoni nel suo dire smonta: uno storicismo senza inquietudine, un ideologismo quadrato. Gli appartiene, similmente a quelle esperienze, una sperimentazione che nasce da un senso di cambiamento d'epoca, di fine dei presupposti, di rimessa in gioco totale.
Ma per così dire Bergonzoni volge altrove quel senso inquieto, lo preserva da ogni regolamentazione ideologica, intuisce con il fiuto che hanno gli uomini da palco più che gli uomini da cattedra o da redazione di giornale che non saranno quelle ideologie a leggere il futuro. Ma occorre una riproposizione quasi sfacciata e "ironica" dell'anima. Un poiein della parola che, se autentica, è sempre un fare arte e fare anima. Tale senso inquieto e curioso, vorace e aperto, è il vero protagonista dell'ultima messinscena, "Trascendi e sali". Qui, colpo di genio teatrale, la inquietudine del cambio d'epoca in cui tutte le parole vanno in crisi e sprigionano nuove possibilità (la parola è così perché la vita è così) è messa addosso a una creatura del cielo, un Dio o un angelo, non si deve capire bene. Ovvero al punto di vista di Qualcuno che calandosi nella realtà magmatica e tragica e bizzarra di oggi la rinomina in modo nuovo chiedendo agli astanti (persino con il giocoso "ricatto" del finale) di accompagnarlo in questa rilettura del libro dei vivi e dei morti, oltre all'invisibile coro di "semi nascosti" e di "quinte essenze" veri e propri stati dell'anima che, invisibili sul palco, continuamente Bergonzoni evoca e chiama.
Tutto questo avviene ridendo, e molto, con molte cose importanti buttate lì per chi le vuole trattenere e non dimenticarle (dalle denunce delle violenze alle riletture bibliche comiche ma mai irrispettose), e anche laddove il suo pubblico può posarsi su certe questioni condivise, qualche concessione di politically correct, qualche ammiccamento (il teatro lo deve essere sempre, anche Shakespeare ammiccava e bisogna saperlo fare molto bene, il che non è facile) ecco subito dopo il sommovimento, la deviazione, il precipizio. Da tempo vado dicendo e scrivendo che i nostri "giullari" (da Benigni a Poretti, da Bergonzoni a Sparagna) stanno facendo un lavoro importantissimo nel paese. Sia per la intelligenza del divulgare cose alte in modo adatto a tutti (cosa che i giullari veri han sempre fatto) sia perché rispetto a un teatro della cultura troppo rigido e ideologico sparigliano le carte, muovono i confini, comprendono discorsi fino a ieri tenuti a distanza. E se irridono il potere non lo fanno esattamente come il potere si aspetta che lo si faccia.
Questa creatura del cielo che ci invita a guardare le parole (e anche la musica, come in un crescendo delirante di ironia) a reinventarle, a guardare cos'hanno dentro. E come sanno i neurolinguisti le parole han dentro una libertà che vertiginosamente somiglia a una cosa chiamata anima, perché, come ricorda il neurolinguista Moro, se si pensa alla somiglianza tra l’uomo e Dio e ci si guarda allo specchio (e anche nel grande specchio della storia) più di qualche dubbio viene, ma se si indaga la stupefacente e misteriosa libertà del linguaggio e del nominare il mondo allora le cose cambiano...
Mentre rètori, professori, tromboni vari si lamentano dello stato attuale delle parole e dei linguaggi (non se ne può più di tali lamenti) arriva un Giullare che invece fa vedere come stanno diversamente le parole (e le cose).
Uno spettacolo di grandissima pretesa culturale e filosofica, di gradevolissimo godimento, di inquietudini serpeggianti.