Che compagnia, Franco! clanDestino per l’amico e maestro Loi

Testi di Rondoni, Lauretano, Romagnoli, Maldini, Serragnoli, Fossati, Mencarelli, Leardini

I ricordi si perdono nei ricordi, Franco.
Che importa fermarli? Resta l'aria
e le opere libere che ha creato.
Opere fatte anche di gesti, di uno sguardo
fermato. Di venirti a prender con la Silvana
e andare in pizzeria.
Di vibrare della lingua, vitaccia e cortesia,
dialetto del camminare tra gli uomini
matto di Dio, e passare via...
Ci siamo fatti una bella
compagnia, tu asciutto, acuto, vero
io viandante, sbranato, sincero.
E quella carezza d'esserci, esserci stati
non solo per noi, dare tutto, pretender niente
con una dura umana allegria...

Davide Rondoni

Per Franco Loi

Caro Franco,
lo stesso giorno della tua morte ho appreso di avere il Covid. Uno dei peggiori della vita dunque, anche se Natale c’è stato da poco e tra pochissimo sarà l’Epifania. Il 21 di questo mese avresti compiuto novantuno anni. È successa, però, una terza cosa oggi che non c’entra solo per gli occhi che decidono che non c’entri. Ma tu, Franco, sapevi che tutto ha un senso e non c’è il caso (quante volte l’hai affermato) e soprattutto che ogni cosa è unita al resto. C’è un verso di Dante nell’ultimo canto della Commedia che ti somiglia tanto: “Legato con amore in un volume” ciò che per l’universo “si squaderna”: un solo legame unisce tutto ciò che esiste, ed è l’amore. Ne eri convinto e mi ci hai convinto, parlando di Dante in un modo che non avevo mai sentito.
La terza cosa accaduta oggi è un articolo di giornale che un amico, Alessandro Vergni, mi ha mandato. Racconta dell’esperienza simile a quella che sto facendo io di fronte alla tua morte; racconta della scomparsa di due suoi amici. L’articolo inizia così: “Cosa significa la frase «A Natale viene Gesù»? A volte per comprenderne il significato serve il dolore. A pensarci bene, come possiamo comprendere l’utilità della venuta di Dio senza partire dal nostro dolore? A volte è la morte di un amico il varco da attraversare per rileggere un fatto che ha portato nella nostra vita ciò che il cuore già sapeva senza conoscere ancora”. E finisce con quest’altra frase: “Gesù nasce nell’ora più buia e niente con Lui avviene per caso”.
La cosa che mi sbalordiva più di te, soprattutto le prime volte che ti ascoltavo parlare in pubblico, quando leggevi poesie, era il coraggio di nominare Dio. Ancora oggi parlarne in pubblico è un’impresa: una barriera di pregiudizio sta sempre tra questo tema e ogni possibile ascoltatore. Tanto più a quei tempi, decenni fa, vicini alla disgregazione dell’epoca sessantottina ma anche al riflusso edonistico degli Ottanta e Novanta, quando di certe cose proprio non se ne voleva sentir fiatare. E tanto più strano che lo facessi tu, ex militante comunista finito persino in galera per frequentazioni al limite del terrorismo marxista. In questi giorni di lutto per te molti ricorderanno la tua libertà e il tuo coraggio; ricordiamoci anche che tu sapevi parlare di ciò di cui non parlava nessuno.
Ricordo questo racconto, ad esempio: una volta, ad una festa in casa di amici della borghesia milanese, parlando ai presenti con una certa enfasi ad un certo punto, nel silenzio generale e all’apice della discussione, hai allargato le braccia e hai detto: “Ma qui c’è Dio!”. Un’altra volta, con fare confidenziale, mi hai rivelato che il titolo di un tuo libro, “Isman”, è il nome proprio del tuo angelo custode, chiedendomi di non dirlo a nessuno, “perché non capirebbero” (ma, ti chiedo scusa, non credo che tu l’abbia rivelato solo a me). A un’altra lettura hai detto che Cristo è la forma ideale di ogni uomo, perché ogni uomo è chiamato a essere come Dio, spiegando la questione del “figlio di Dio”. Tante volte ci hai detto che l’uomo è una semplice antenna, fatta per captare lo Spirito. La poesia ne era per te la musica, il poeta un semplice servitore. Potrei fare tanti altri esempi, ma li sanno tutti.
Oggi è innanzitutto per questo che ti sono grato. Motivi di gratitudine per te ne avrei mille in realtà. Tu mi hai “lanciato” nel mondo della poesia (ma forse questa è una colpa!) scrivendo l’introduzione della mia prima raccolta. Non ti conoscevo bene pur avendoti già incontrato, anche se non ricordo la prima volta; suppongo al Centro di Poesia Contemporanea di Bologna o da qualche parte in Romagna, dove avevi per amici i grandi poeti romagnoli miei maestri, come Baldassari, Baldini o Fucci. Cercando un introduttore per il mio libro, Davide Rondoni, che già aveva più familiarità, mi propose di chiederlo a te: mi andò bene, viste le poesie, accettasti. Fu bello lavorare insieme, ci siamo scambiati alcune lettere che conservo. In una interrompevi il lavoro di consigliarmi e commentare i testi perché il gatto ti era salito sulle gambe alla scrivania e chiedeva, mi scrivevi, tutta la tua attenzione. Ho il sospetto che anche nella natura e nel gatto ci fosse, per te, qualcosa di Dio.
Non starò a raccontare di altri incontri, degli innumerevoli fatti con te. Qualche volta ho organizzato io stesso le tue letture, nelle città della Romagna. Sono io che ho scelto i brani, tratti dagli articoli apparsi sul “Sole 24 Ore”, di un tuo libro di acuti interventi riflessivi e critici sulla poesia, “Diario breve”, che pubblicammo con la NCE e “clanDestino” e divenne una specie di aureo manuale di me lettore. Non c’è bisogno. Nell’autobiografia che ci hai dato c’è quanto tu ritenevi occorresse per conoscerti come persona. Oggi, nell’ora più buia, voglio pensare innanzitutto al tuo coraggio, alla luce che sei stato e sei, al richiamo a quell’amore unificante al cui servizio sta il poeta e la sua opera. Va’ in pace, servo buono e fedele, e ricevi il premio dal tuo Signore, perché hai tanto amato.

Gianfranco Lauretano

Questa è una delle ultime foto che ho scattato a Franco, qualche mese fa, mentre mi parlava di quando aveva sognato Giacomo Noventa la notte della sua morte, pur senza averlo mai conosciuto, e di come il suo nome fosse finito così dentro i primi versi di "Stròlegh".
Come questa mi fa piacere leggere oggi molte storie e aneddoti di chi gli era intorno, anche solo per una serata di poesia o qualche evento a cui veniva invitato. Vuol dire che la presenza di Franco non era cosa all'appannaggio di libri, pose o classifiche di sorta. Non era certo solo il nominarlo come uno dei Grandi Poeti Viventi, non era certo solo una menzione per aver modo di tirare in ballo la validità della poesia dialettale o sciorinare qualche considerazione critica aggrappandosi alle citazioni di carambola del Mengaldo di turno per far bella figura. Alla fine Franco lo conoscevano un po' tutti ed era difficile che qualcuno non ne parlasse in toni compiaciuti, in una sorta, quasi, di elitarietà condivisa, come se tüti eren i amîs del Franco, come se ci si sentisse tali solamente per contatto o sponda. Anche solo per averne letto un verso e sentire che una certa Storia - sia essa Canone o contingenza - passasse proprio lì, vicino a ognuno di noi.
Le grandi storie, anche loro, così come i grandi versi, dovrebbero rimanere, senza grandi giri di parole per tutelarne l'assetto o la validità. Almeno per essere dette e raccontate di nuovo a chi ha ancora occhi e orecchie aperte a queste cose. Dovrebbero fungere da ideale di vita. Vita vera, si intende... Possono ancora farlo. È questa, forse, la loro grandezza. È questo uno dei lasciti che la parola di un Maestro regala al domani. E in tempi come questi è una grandezza che nemmeno tutta la fama, l'oro o la salute del mondo potranno rubare all'emozione di questo vivere ancora in loro compagnia.
Liberandosi del peso del doverne parlare, del doverne sancire la posizione in qualsiasi pantheon di sorta, lontani anche dall'occhio bagnato dal sò andà via, ci resta questa grandezza. Non la domanda, nemmeno la risposta, nemmeno il perché. Ma l'eccezionalità di un fiö che'l sugna, di un ragazzo che sogna. E delle sue parole che, insieme a lui, camminano dondolando tra le costellazioni e la chiesa di quartiere.

Sí, seri estrûs, e te dirú, Nuénta,
sun schittâ giò a la gran piassa vèrta,
e l'era l'aria, o l'era la granisa
di tilli al Leuncavall che grapelaven
d'un duls smucciûs e d'un umbrià d'arbrisa,
o l'era Casurett, tra i câ stramorta,
che la strugiúla al campanil de gesa,
due brilla i stell antigh e 'na sbruffera
de Siri, de Teriones, Jadi, Ofiucus,
e dundi, me respiri, e aj pé che svaria
dal trèm di infraruss a mí fa lera
un strià chiumíss e vûs una liutaria
ch'al lacc briglius e al mund criava
pecca, oh tèra, pecca tí,
che par che gela!
E mí, che 'l pass dansâss,
slargâss de l'aria,
e là, 'me'n inventâm, par aqua ferma
sü Casurett la lüna che la cera
el möv di òmm che van ne la nott erma,
e s'infilascia, e s'ciara, e caminera
va 'me pietá sú i sogn ch'aj tecc ínferma.

Si, ero estroso e ti dirò, Noventa, / sono saltato di scatto giù, alla gran piazza aperta, / e era l'aria, o era la graniglia ghiaccia / dei tigli che, verso via Leoncavallo, penzolavano a grappoli / di un dolce smoccioloso e di un ombreggiare di fogliami mossi dalla brezza, / o era Casoretto, tra le case allungata stanca e morta, / strada che disselciata scivola al campanile della chiesa, / dove brillano le stelle antiche e una annaffiata / di Sirio, di Teriones, Jadi, Ofiucus, / e cammino dondolante, respiro me stesso, e ai piedi che divergono variando il passo per gioco / dal tremolio dei raggi infrarossi giunge fino a me pigramente / un far sortilegi che traversa chiomante il cielo e una liuteria di voci / che al brigliginoso delle stelle della via Lattea e al mondo gridava / pecca, oh terra, pecca tu, che sembri gelare! / E io, certo che il mio passo danzasse / le s'allargasse e addolcisse l'aria negli spazi, / là come se io me l'inventassi, vedevo come acqua ferma / su Casoretto la luna che fa di cera / il muoversi degli uomini che vanno nella notte ascosa e sapiente, / e s'intrufola, e fa chiare le cose, e camminante / va come pietà sui sogni degli uomini che sotto i tetti s'ammalano.

(Da Stròlegh, I, 1975)

Davide Romagnoli

Come mi piace il mondo Franco, l'aria, il suo fiato, le matte stupidate, anche perché quando capita che mi distraggo e me lo dimentico poi mi viene in mente che nelle tue parole è ancora più largo, e delle volte persino amico, il mondo, e mi ricordo di te. Grazie.

Stefano Maldini

Quando penso a Franco, penso a un uomo libero, libero di stare con chi gli piaceva stare, di collaborare, di essere lì dove lo incontravi, ma davanti a te. Per uomo libero non intendo un uomo libero politicamente o poeticamente. Intendo libertà come amare ciò che capita di incontrare. Significa, in un certo misterioso senso, di scovare l’amabilità, la desiderabilità delle cose e delle persone, delle circostanze.
Ricordo, quando lavoravo al Centro di poesia e la mia amica ragioniera Annamaria Ramponi, volontaria, aveva cercato per Franco, un elenco di treni, come si fa di solito con gli ospiti, ricordo che lui, nel ringraziarla, l’aveva guardata per qualche secondo negli occhi dicendo “grazie”. Ricordo, come fosse ora, di aver sentito tutta l’emozione di lei, fino alle lacrime. Era un donnone tutto d’un pezzo, difficile da smuovere.
Verrebbe da dire che sono patetica, altri sono i fatti che contano. Invece no, mi sento libera di raccontare anche questo. La sua poesia e il suo atteggiamento erano la stessa cosa. E questo me lo disse una volta Luzi quando gli chiesi se era il caso di smettere di scrivere: “puoi tu smettere di guardare le cose come le vedi ora?”. “No”. Non smettere di guardare, il resto verrà, non importa. E non è questione di avere tempo a disposizione per la libertà, di vedersi spesso. È un atteggiamento che ti dice: “tu ora qui davanti a me sei tutto”. È l’aria, quando è fresca e dolce.
D’accordo separare l’uomo dall’opera etc, ma ora è morto un uomo, non è morta l’opera di cui si parlerà finché qualcuno parlerà di poesia o storia della poesia.
Un giorno eravamo in Toscana ad un incontro organizzato dall’amico Luca Nannipieri. Finisce l’incontro e Franco e tutti scendono dal palco. In prima fila c’era un uomo, già in là con gli anni, con i capelli bianchi un po’ arricciati, alto magro. Non era un addetto ai lavori, uno scrittore, si notava dall’ascolto attento, dalla presenza curiosa. Franco si avvicina e gli dice “ti ho notato prima che ridevi… sai che hai un bel sorriso, sei simpatico… come ti chiami?”. E il signore, non abituato a una tale confidenza, quasi imbarazzato, incomincia a ridere come un bambino e anche Franco ride, tutti ridiamo fino alle lacrime. E Franco gli dice: “ridi più spesso, sei bello quando ridi”. E ridevamo di niente, come bambini, una gioia scappata dalle catene dei volti, uno smottamento delle crepe.
I complimenti delicati, a volte quasi onirici, di Franco era come essere presi in braccio da grandi. Quei complimenti che non si fanno più, ridicoli, semplici di quella semplicità confusa con la superficialità o il patetismo, o di chi dice che sono vietati in poesia, vietati nella vita adulta. Quei complimenti che oggi forse verrebbero attribuiti o allo scemo del villaggio o al furbo calcolatore che gioca a poker con la sensibilità altrui.
Eppure io lì ho visto l’attrazione, il suo innamoramento istantaneo e fresco. Era libero di innamorarsi e aveva vocazione a innamorarsi delle persone e delle cose, con atteggiamento bambinesco. Sostenere la poesia altrui non significava mischiare valore e non valore, ma ridare fiducia a questo sguardo credente, incantato, forse innato. Maturare nella poesia non significa tendere a scrivere la Divina Commedia, forse è un’apertura, una guerra al cinismo, una chiamata ad un abbraccio con le cose il cui esito è amare. La teoria non mi intessa, quella risata sì.
Non sto parlando di Franco come un maestro spirituale o un santone, non sto facendo una divinizzazione della persona mancata. Non sto mischiando le carte. Sto parlando di Franco come un credente, non come un credulone. Occorre preservare l’origine di noi, quel movimento vivo che, se non sarà la parola a determinarlo, sarà un’occhiata, un gesto. La vocazione all’arte come vocazione alla bellezza, certo, ma soprattutto al crederci, alla fede in quel riverbero di amabilità, di desiderabilità che ogni cosa, ogni persona ha.
E quando qualcuno toglie quel velo, si ride, si ride di gusto, un po’ vergognandosi di farlo, con quel viso la cui pelle crepa, uno smottamento dei lineamenti. Ma siccome Franco se ne fregava e avrebbe lasciato tutta la sua poesia per quei sorrisi, come chi lascia tutto per una terra promessa, che luccica in un punto. Per questo ha sempre ritrovato il filo del suo discorso, paradossalmente lasciando tutto per un altro abbraccio, per un nuovo incontro. Per questo era così leggero. Avrebbe abbandonato tutto per la bellezza, per toccare con una carezza ciò che in quel momento era tutto.
Ho vissuto il suo invecchiamento a distanza. Ogni volta che lo vedevo in qualche foto, con quel sorriso mezzo seccato dalla vecchiaia, un po’ irrigidito, gli occhiali scuri, ho provato a lasciarlo stare contro il cielo, senza più foglie, limpido, staccandosi poi, senza cadere, come in quel quadro di Chagall, a passeggio nella sua amata aria.

5 gennaio 2021

Francesca Serragnoli

Testimonianza per Franco Loi

Da anni non lo incontravo, né lo sentivo al telefono; ma ora che ci ha lasciati alcune cose mi sono apparse più chiare. Fra gli avvenimenti importanti, direi di più, decisivi, dei miei anni al Centro di poesia c’è stato proprio l’incontro con Franco. Tante volte l’ho visto, ascoltato. I suoi occhi, il suo sguardo, oltre le lenti molto spesse, andava dritto al cuore di chi aveva davanti; e spesso, come mi è accaduto più volte con lui, il tuo cuore lo leggeva proprio, lo attraversava. Con lui non si poteva fingere, barare; ed era un bene. La sua presenza rappresentava per tutti noi un faro. La mia memoria, ora che scrivo, va a quella celebre terzina dantesca del Canto XXIV del Purgatorio: “I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”. Era una delle sue citazioni preferite, se non addirittura la preferita. Pochi come lui sono stati così vicini a quei versi (infatti è stato uno dei più ‘danteschi’ dei nostri poeti). La musica della sua poesia è riuscita ad aprire un varco e a fondersi e modellarsi col respiro della realtà senza mai negarla o metterla in dubbio, anzi innalzandola. La sua musica, prima di tutto intima, del profondo, è stata in grado di accordarsi alla vita, al mondo, e di raccoglierne amorosamente tutti i segni, di restituirli, magnificarli, farli come ri-accadere. Quella dentro di lui era una lingua-musica potente, trascinante; si ispirava al dialetto, ma in realtà era una lingua nuova, reinventata incessantemente, tenace e mobile come la vita stessa, plasmata sulla vita stessa. Ed era bellissimo ed emozionante sentirlo recitare i suoi versi a memoria. L’ascoltarlo e il leggerlo riusciva, anche per poco, a farmi guardare oltre il male di vivere e oltre il terrore che la vita non abbia senso. Davvero. Era un dono la sua poesia, la sua voce che giungendo dalla profondità testimoniava (e non solo in poesia) il suo amore per la vita e per l’umano. L’ho perso di vista ma non ho perso le sue, anzi la sua traccia. La sua presenza, anche se ora lui è affidato all’oltre, il suo sguardo acuto e sempre ‘amoroso’, di poeta e di uomo, mai potranno andare perduti.

Valentino Fossati

«Franco, sono Isabella Leardini, ti ricordi?» Lui si gira, si toglie gli occhiali da sole e si avvicina per guardarmi bene negli occhi, come per essere sicuro. Poi ride contento e sorpreso «Sì! Sei proprio tu! Hai ancora gli stessi occhi!»
Lui che quasi non ha più i suoi, vuole controllare che i miei siano ancora gli stessi.
Lo faceva sempre, mi scrutava per controllare che non fossi cambiata, aveva paura che qualcosa si spegnesse.
Come fanno i grandi poeti e i veri maestri, Franco sceglieva con una strana durezza, mi aveva scelta per qualcosa che io stessa sottovalutavo; quando mi parlava dei miei occhi non capivo mai cosa volesse dire, non l’ho capito fino a quell’ultimo incontro, poco più di un anno fa.

Il giorno in cui lo avevo ascoltato per la prima volta era stato come un vento che si alza, la risposta misteriosa della poesia finalmente offerta allo scoperto, disarmata per chi sa toccarla. I maestri sono fatti di voce, te ne accorgi perché è questo l’elemento che di loro per sempre vive, la voce che per tutta la vita puoi richiamare, la voce che puoi sentire sempre intatta, sempre viva, e parla in te mentre tu parli agli altri, passa all’infinito un testimone. Quando perdi un maestro come lui rimpiangi più di ogni altra cosa le frasi rimaste nell’aria, come l’ultima che mi ha detto. Quel giorno fissando i miei occhi mi ha detto qualcosa sull’anima. Quando qualcuno ti rivela qualcosa e subito la memoria la disperde, è il segno degli oracoli.

Franco lo era, terrestre e oracolare insieme, ridente ma rigorosissimo, miracoloso. Un giorno quando avevo circa vent’anni l’ho accompagnato in stazione e nel via vai della strada affollata lui mi ha presa per mano. Mi sono chiesta cosa avrebbero pensato vedendoci, ma non ho avuto il coraggio di ritrarmi. L’aveva presa mentre mi parlava, come si sarebbe presa la mano di un bambino per attraversare la strada. Mi accompagnava per una strada che sapeva sarebbe stata la mia.
Scrivevo a macchina le mie prime poesie e le spedivo a Franco, lui mi telefonava e me le rileggeva, dicendomi dove brillavano e dove invece mi ero lasciata dirottare da qualcosa che non mi apparteneva. «Fai silenzio e ascolta - mi diceva - bisogna vegliare, fare attenzione, i poeti sono come antenne ma possono anche captare delle interferenze. Quando ti danno i consigli devi essere come Ulisse che si fa legare all’albero della nave per ascoltare le sirene. Solo tu puoi toccare il tuo testo». Mi insegnava il rapporto con l’invisibile, il lavoro, la fiducia nella mia verità.
«Non avevo sbagliato!» Diceva allegro e sorpreso ogni volta che ci rincontravamo. Lui felice come se avesse vinto una scommessa, io sempre sotto esame.
I maestri servono a questo, a tenerci sulla corda della poesia. E sono loro i più appassionati a quella corda, al nostro e al più grande equilibrio.

Isabella Leardini

Per Franco, vivo tra i vivi.

Che anno sarà stato? Forse il ’96, forse il ’97. So che nella mia memoria è in questo momento.
Eravamo tutti ragazzi, una nidiata proveniente da tanti luoghi diversi, tra noi iniziavano a nascere le prime amicizie, sintonie. Eravamo i futuri Cercatori d’oro, innamorati della poesia, quindi degli uomini, del mondo, un gruppo di giovani poeti cresciuti attorno alla rivista clanDestino, a Davide Rondoni e Gianfranco Lauretano, confluiti successivamente in un’antologia intitolata proprio così.
A Bologna il clima era accesissimo, a causa di una manifestazione che degenerò in violenza proprio davanti a noi, da una parte le forze dell’ordine, dall’altra gli autonomi e i centri sociali. Noi, in fila indiana, gli passammo a fianco. Una scena surreale. A pochi centimetri da noi le cariche, la violenza dello scontro fisico. Ebbi paura. Quella sarà stata la terza, quarta volta che salivo verso Bologna dai miei Castelli romani, per partecipare agli eventi organizzati dal Centro di poesia contemporanea dell’Università, un altro luogo fondamentale per tanti di noi.
Quel giorno ci infilammo in una chiesa sconsacrata, qualcosa del genere, il ricordo è in parte corroso dall’alcol. In quel periodo bevevo, parecchio.
Per me quello era un periodo di crisi, avvilimento. Perché a parte gli altri Cercatori d’oro, Rondoni e Lauretano, non rintracciavo nei poeti quella vitalità che immaginavo essere il motore primo di un essere umano, figuriamoci di un poeta. I poeti affermati, i poeti adulti, erano tutti così diversi dal mio immaginario. Erano così, apatici, indolenti, spenti. Pieni di superbia. Distanti.
Arrivai a quella lettura con il terrore di aver sbagliato tutto. Che il mio sentire non era quello di un poeta, ma di un mezzo matto, altra cosa rispetto alla postura degli altri.
Poi arrivò Franco, si sedette sul palco, ci raccontò che aveva letto le nostre poesie, tutto il suo intervento fu quello di un maestro di fronte a un gruppo di allievi. Si spese in suggerimenti, raccomandazioni, ci esortò a fare meglio, sempre.
Franco Loi era un comunicatore totale, quello verbale era solo uno dei tanti alfabeti che utilizzava per trasmettere il suo sapere. Si potrebbe definire così. Con questa pseudo-lingua da tecnici dell’umano.
Franco Loi era il primo vero poeta che il destino mi poneva di fronte agli occhi. Il primo innamorato di ogni singola cellula d’umano, innamorato di tutto, come un bambino non ancora corrotto dall’educazione degli adulti.
Questo era.
Un uomo, un poeta, che viveva la poesia come terminazione di un sentire acceso sull’universo intero, come si conviene a un vero artista.
Alla fine dell’incontro, al posto dell’avvilimento c’era una speranza nuova. Perché avevo conosciuto Franco Loi, esistevano poeti della sua statura, della sua passione, vitalità.
Quella sera andammo a cena assieme, ognuno ebbe il suo momento per parlare con lui, conoscerlo personalmente. Successivamente, negli anni a venire, ormai passati, Franco divenne per tanti di noi una figura costante, un maestro, padre, a cui chiedere, con cui parlare e svelarsi.
La tristezza vorrebbe prevalere, ma a pensare ai suoi occhi, a noi giovanissimi, a tutta la vita che ci ha unito, viene solo da ringraziare, e sorridere. Ora Franco sa chi è, tutti i suoi meravigliosi interrogativi sono stati sfamati.

Daniele Mencarelli

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