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Cesare Pavese. Di tutto e del tutto

Dalle Poesie (Einaudi, Torino 1998) all'Opera poetica di Cesare Pavese (Mondadori, Milano 2021)

di Liborio Barbarino

Mentre scriviamo sono passati centosedici anni da quando è nato Pavese: oggi probabilmente sarebbe l'uomo più vecchio del mondo, scriverebbe magari con la dettatura elettronica e di certo avremmo almeno un recorded speech della sua voce (se ne trovano perfino di Marinetti). Niente di tutto questo invece. Pavese è morto nel 1950, nell'alto Antropocene (ammesso che esista), con i suoi capelli neri e folti, e lo sguardo da uomo su un cuore bambino. La poesia uccide. Dovrebbero scriverlo su certi libri, meglio che sui pacchetti di sigarette. Ma non ci sono studi scientifici a dimostrarlo. Centosedici anni sono quasi tre vite di Pavese, volato via a quarantadue soli non ancora girati da una camera dell'albergo Roma di Torino; «d’estate, nella città che gli apparteneva, come un forestiero». Così scrive Natalia Ginzburg, e lo sappiamo senza bisogno di leggere il suo libro – pubblicato nel 1962 e di non troppo facile reperimento –, perché sta scritto in mezzo a tante altre cose nell'Opera poetica (Mondadori, Milano 2021).

Questo volume, curato da Antonio Sichera e Antonio Di Silvestro (Disum, Università di Catania) e presentato al Salone del libro di Torino 2021, è stato definito da più parti immenso, monumentale, colossale, vasto, mastodontico. E forse queste definizioni non gli hanno fatto bene, se quest'epoca (come diceva Calvino già quarant'anni fa) «non si presenta […] con immagini schiaccianti» ma ha la virtù della leggerezza, è «senza peso» (Lezioni americane). In effetti il lettore comune non ha ben chiaro perché spendere 35€ per mettersi in casa 1700 pagine, circa tre chili di carta. Non un libro da comodino. Un libro che piuttosto lo piega il comodino.

Il volume rientra pienamente nella terza fioritura libraria di e su Pavese. Dopo la prima, avvenuta nei dintorni del suicidio e spinta da una mistica di amore e morte ben monetizzata dai più prossimi; dopo la seconda, avvenuta a cavallo del passaggio di secolo e attorno al centenario della nascita (la bibliografia completa di Pavese è curata da Luisella Mesiano, con un aggiornamento fino al 2016 di Roberto Dore; sono entrambe scaricabili liberamente dal sito hyperpavese.com). È una terza fioritura incentivata dal cambiamento climatico o più verosimilmente dalla cessazione, settant'anni dopo la morte, dei diritti d'autore, e che conta: numerose monografie, le prime edizioni critiche (Lavorare stanca, La luna e i falò, le poesie cosiddette «del disamore»), e numerose stampe (ma anche ristampe) delle opere.

Per quanto riguarda la lirica vanno certamente ricordate le Poesie curate da Giovanni Bàrberi Squarotti (BUR, Milano 2021) e l'edizione di Lavorare stanca per la curatela di Alberto Bertoni (con nota al testo di Elena Grazioli, Interno Poesia, Milano 2021). Einaudi, detentore fino a quel momento unico dei diritti, aveva scelto nel 2020 di scelto di ristampare le Poesie del 1998 (curatela di Mariarosa Masoero, introduzione di Marziano Guglielminetti) – libro allora di culto, ma datato almeno nelle note ai testi, con riferimenti ormai obsoleti poiché le segnature d'archivio sono cambiate da tempo –, aggiungendo un'introduzione che è un 'viaggio sentimentale' di Tiziano Scarpa (Come stendersi nudi all'aperto sopra i versi).

Due libri però godono del sigillo della prima volta. L'opera poetica appunto e le recentissime Poesie (Garzanti, Milano 2023), curate da Marco Villa e Niccolò Scaffai. Il primo libro amplia il significato attribuito al sintagma 'poesie di Pavese' estendendone considerevolmente il canone, e proponendo in un unico volume tutte (ma proprio tutte) le poesie – scarabocchiate, scritte, stampate, tradotte – di Pavese: testi editi dall'autore in volume o in rivista, affiorati negli anni (attraverso i lavori meritevolmente consegnati nel tempo alle stampe da Calvino, Emanuelli, Leva, Guglielminetti, Masoero, Dughera, Pietralunga, Bàrberi Squarotti, Cavallini), insieme a oltre cento inediti. Il tutto ovviamente ricontrollato  sugli autografi (o sulle stampe d'autore), come gli apparati non mancano di testimoniare, segnalando le varianti introdotte a volte accidentalmente dalle più significative edizioni a stampa. Un «continente obliato» direbbero i (conterranei all'autore, contemporanei invece all'adolescenza di chi scrive) Marlene Kuntz. Almeno fino a questo libro.

L'indice, di sole (?) 22 pagine, è diviso in quattro sezioni: Le poesie e Le traduzioni (Lee Masters e Whitman, con testi originali a fronte), un Laboratorio poetico (testi dal 1919-20 al 1931) e un Laboratorio di traduzioni classiche (Omero, Esiodo, inni omerici, Mimnermo, Solone, Saffo, Ibico, Simonide, Bacchilide, Pindaro, Leonida, Meleagro, Anacreontea, Eschilo, Sofocle; Ennio, Plauto, Terenzio, Lucilio, Catullo, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Tibullo, Properzio, Ovidio) e moderne (letteratura inglese, americana, tedesca, francese). I testi sono minutamente annotati, e ogni gruppo di questi reca una notizia che ne racconta la storia interna ed esterna, e nel caso delle traduzioni ricostruisce anche il rapporto di Pavese con quell'autore. Uno strumento imprescindibile per ulteriori approfondimenti, corredato volta per volta da essenziali riscontri bibliografici.

L'esattezza filologica è peraltro riconosciuta dall'altro libro di questa diade, le dette Poesie (Garzanti, Milano 2023), curate da Marco Villa e Niccolò Scaffai che hanno il merito di proporre per la prima volta un commento organico alle poesie di Pavese (Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, insieme alle Poesie del disamore e ad altre extravaganti), e che stampano proprio secondo la lezione dell'Opera poetica (con minimi scostamenti, nelle poesie cosiddette 'del disamore', dettati dall'edizione critica di Cristofari).

Ma cosa significa avere in mano tutta l'opera poetica di un autore come Pavese? Facciamo qualche esempio. Sfogliandone le pagine può capitare di fermarsi su Lavorare stanca e di accorgersi che alcuni versi hanno insospettabili punti di contatto con la Spoon River; o almeno con certe poesie dell'Anthology mastersiana che lo stesso Pavese traduceva. Si tratterebbe di un rilievo notevole per due ordini di motivi: il primo è che a livello di bibliografia critica non ci sono studi organici sull'impatto di Lee Masters nella poesia di Pavese, e in specie nella sua genesi (questo libro, ad esempio nell'Introduzione, offre significativi punti di partenza); il secondo è che lo stesso modo di scrivere del Pavese maturo, tutto proteso a un occultamento delle fonti, scoraggia fortemente un approccio intertestuale di tipo ortodosso. Ma prendiamo Antenati (p. 11) insieme a Walter Simmons (pp. 262-265, traduzione di Pavese, con testo originale a fronte), per capirci un po' meglio.

Nella seconda poesia di Lavorare stanca, Pavese racconta la graduale presa di coscienza di sé da parte di un ragazzo, che lo porta a trovare un posto insieme nella famiglia (nella storia degli antenati, appunto) e nel mondo. La storia di Walter Simmons è invece quella di uomo che – alla fine del percorso – guarda al talento sprecato del ragazzo che fu. Dette così in effetti sembrano due storie lontane, ma vediamo ancora.

Intanto muovono entrambe dal tempo del ragazzo, da una voce che colora il mondo coi suoi occhi stupiti (da «My parents thought…» a «wondrous kites» con «Stupefatto del mondo…»). E in entrambi i casi il finale appare subito in prolessi attraverso un'identica congiunzione («But then at twenty-one I married», «Ma anche questa è passata»): un identico «ma» che mette in parentesi nell'una i sogni, nell'altra i turbamenti dell'io lirico. C'è un luogo che rappresenta il turning point delle rispettive storie. E questo luogo è un «negozio» sia in Antenati che in Walter Simmons (dove il termine scelto da Pavese traduce il mastersiano «store»). Il concordatore del resto suggerisce: «negozio» è lemma rarissimo nella poesia di Pavese, che compare solamente in questi due testi.

Ma ancora, dietro il banco di questo «negozio» c'è qualcuno che non bada agli affari: all'americano che è tutto altrove («Thinking, thinking, thinking, thinking – / Not of business, but of the engine / I studied the calculus to build») fa eco in Antenati lo svagato che «in negozio leggeva romanzi». C'è dell'altro però, è una congruenza cronologica che può forse spiegare questi echi: le traduzioni mastersiane sono pubblicate da Pavese nel novembre del 1931 su «La Cultura» (le bozze sono di fine settembre), mentre il testo di Antenati è composto non oltre l'inizio di febbraio del 1932 (lo apprendiamo dalle rispettive note e notizie: p. 1245; p. 1319 e 1324). Un simile torno di tempo illumina il caso(?) che sia Antenati che Walter Simmons restino le uniche poesie dei rispettivi noveri (Lavorare stanca e le traduzioni di Spoon River) per le quali non sono conservate le prime stesure manoscritte: magari salteranno fuori insieme?

Masters in Pavese è ovviamente funzione più ampia, severa scaturigine di cui il libro dà debito conto sia nel dialogo tra le due introduzioni (l'Introduzione ermeneutica e quella filologica: Nello scrittoio di Pavese poeta) che nella Notizia che accompagna i testi tradotti dal langarolo. Funzione che descrive un'idea del raccontare in versi, che reagendo con Whitman e Dante, con Omero e più tardi con Verga, genera quello speciale e riconoscibilissimo impasto di cui sono fatti i versi di Pavese. Ingredienti e pietanze sono tutti in questo libro. Da maneggiare con cura.

Credit photo: fondazionecesarepavese.it

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