di Mauro Ferrari
Roberto Galaverni, Carte correnti, Fazi 2023, pp. 684, € 25,00
Il libro più impegnativo di Roberto Galaverni, uno degli ormai rari (e non è detto sia un problema) critici puri rimasti, passa in rassegna numerosi problemi centrali per la poesia contemporanea, e solleva interessanti riflessioni in ordine al materiale proposto e al metodo prescelto.
Sottolineiamo subito come la posizione prescelta da Galaverni, come osservatore e studioso della poesia del Novecento, sia davvero unica: la sua residenza a Berlino, la non appartenenza al mondo universitario (in un periodo in cui fin troppi sovrappongono carriera accademica, produzione saggistica e produzione creativa – ma vorrei accantonare per ora questa riflessione) e, per quanto possibile, la sua indipendenza intellettuale da consorterie più o meno ufficiali, sono il punto di partenza ineludibile per comprendere tante delle sue scelte nel tempo. D’altro canto, la sua presenza nel dibattito culturale è scandita da libri seminali come (per ricapitolare le tre tappe fondamentali) Dopo la poesia (Fazi 2002), Il poeta è un cavaliere Jedi (ivi 2006) e il presente Carte correnti (ivi 2023): tre libri, ci pare, di crescente impegno e peso, che affinano anche un discorso sul metodo relativo alla poesia in sé (mai generalizzando spunti e temi) e sugli ultimi decenni in Italia nello specifico.
Non è facile, al di là dei tanti sproloqui da assessori “alla cultura, al turismo e al tempo libero” o da poeti della domenica, affrontare e ribadire oggi la centralità della poesia, fornendo prove basate su una conoscenza approfondita e un rigore metodologico che – questo è il punto centrale – non è mai disgiunto da sincero ed evidente amore per l’oggetto dello studio; tanto più raro in quanto, come detto, non nasce da chi pratica, sull’altro tavolo, la poesia a livello creativo. Il duplice rischio, va da sé e lo si vede abbastanza spesso, è quello di analisi metodologiche a freddo, da tavolo di vivisezione, oppure troppo emotivamente coinvolte, come quelle che spesso fanno i poeti-critici (che pure, nella definizione degli immediati dintorni del contemporaneo, svolgono un ruolo assolutamente indispensabile anche se diverso per metodologie e soprattutto fini, specie quando non si propongono di promuovere personali cordate o consorterie).
Quanto detto mi sembra illuminare lo stesso percorso metodologico di Galaverni, che (si perdoni la brevitas al limite della banalizzazione) si evolve da una raccolta di brillanti saggi unificati da un certo desiderio di “fare antologia” del primo libro citato – che cadeva, del resto, nel pieno del fervore antologizzante di fine millennio, e che forniva coordinate che mi paiono ancora valide, per passare a una vera e propria Defense of Poetry con i crismi anche di una certa militanza, seppur non limitata all’immediato contemporaneo, per approdare al metodo unificante di questo Carte correnti. Sempre tenendo i testi, dunque il corpus da esibire al processo, al centro del proprio ragionamento.
In Carte correnti Galaverni parte appunto da una scelta di testi esemplari per sviluppare il discorso critico, e questo fa tutta la differenza: “il filo conduttore, se uno ce n’è, riguarda appunto […] il processo di determinazione poetica del senso […] l’interdipendenza tra il senso come direzione e il senso come significato” (p. 12). Non si tratta, viene ulteriormente precisato, di meta-poesia, ovvero poesie in cui l’Io poetico affronta il processo di creazione poetica, ma di testi che inglobano, nel proprio percorso testuale, l’idea di un percorso verso la verità della poesia – che sia totalmente allegorico (L’anguilla di Montale) o, più copertamente, metaforico (La malattia del’olmo di Sereni).
L’analisi si concentra su nove poesie capitali di attraversamento, vagabondaggio mentale più che fisico, scoperta, ma anche di erranza in territori indecidibili, non-luoghi, terre di nessuno (Magrelli, De Angelis), che forniscono profondi spunti di riflessione sul presente e non solo; in buona parte sono poesie molto note (si pensi all’Anguilla di Montale, un testo commentato quasi quanto l’Infinito) ma che permettono a Galaverni di sviluppare un’analisi che da una iniziale explication de texte/close reading si sviluppa a spirale e per espansione, toccando vari nodi del problema-poesia e delle poetiche degli autori: Montale (due testi, a ribadire la sua centralità), Zanzotto, Sereni, Fortini, Pagnanelli, Pusterla, Magrelli e De Angelis, quasi a fornire una sorta di antologia sui generis della poesia degli ultimi sei-sette decenni.
Le varie scelte mostrano la coerenza dell’impianto ideativo. Entrando nello specifico, il filo conduttore più caratterizzante, che collega esplicitamente almeno le due poesie di Montale (L’anguilla e Barche sulla Marna) con L’anguilla del Reno di Pusterla (in Bocksten, 1989) è il rapporto fra due simboli e archetipi plurivalenti e ambigui come il fiume e l’anguilla, che Galaverni utilizza per inquadrare il divenire del testo in relazione alla visione del mondo che esso allegorizza, alla luce 1) della poetica generale dell’autore e 2) del valore di verità poetica che il testo mette in opera proprio nel costruire una dialettica fra materia e forma del contenuto che rappresenti e quindi metta in scena secondo specifiche strategie, il rapporto sia fisico che ideativo del poeta con lo spazio e il tempo. Ovvio che da siffatta analisi emerga il livello allegorico e archetipico dei vari testi: ne sono esempi appunto l‘immagine del fiume (il divenire, lo scorrere del tempo come chronos e kairos), e dell’anguilla, col suo destino di riproduzione che bene allegorizza quello umano, ma anche con il suo movimento a ritroso, a risalire lo spazio ma soprattutto il tempo, verso le radici, le sorgenti, un punto di luce, o a discendere nell’abisso buio della morte).
Nell’analisi de La malattia dell’olmo di Sereni (1981) emerge il valore simbolico dell’albero, radicato nel basso della terra e tendente alla verticalità trascendente; nel testo magrelliano, Porta Westfalica (1992), all’interno di una soggiacente e obliqua riflessione sulla vita, a un primo livello testuale il poeta situa concretamente l’Io poetante in un territorio in cui mappa e realtà non corrispondono, per avviare lungo il percorso dei versi un vero itinerario conoscitivo di cui il fiume può essere un soggiacente riferimento archetipico come percorso verso la conoscenza; Cartina muta di Milo De Angelis (da Biografia sommaria, 1999) ribadisce e approfondisce il concetto della reticenza del reale a lasciarsi mappare e comprendere se non per poesia – all’interno di una idea di poesia, è chiaro, che dialoga con la tragicità di Lucrezio più che con il (cauto) positivismo dei cartografi.
Le scelte, quindi, non appaiono una intelligente per quanto banale “collezione di saggi” ma corroborano, da più punti di vista, il discorso centrale e le sue tesi: il modo in cui un testo sviluppa in maniera dialetticamente dinamica quelli che nella mente del poeta sono l’intuizione di avvio e un grumo di spunti tematici ad essa collegati, in relazione al situarsi, individuarsi e rappresentarsi nel mondo, nel segno di un “abitare poeticamente” che nasce dal dare i nomi alle cose. La modernità dei testi, ossia la loro rilevanza per i lettori di oggi (che si traslerà spesso inalterata nel tempo) sta proprio nella dialettica tra mito, simbolo e allegoria da un lato e concretezza dell’odierno vivere in un mondo indecidibile.
Galaverni dimostra come quella del testo sia una geografia e una topografia tridimensionale: la direttrice orizzontale sviluppa la pura sequenza di significanti e significati (sia nell’asse sintagmatico che in quello paradigmatico); lungo quella verticale si incardinano la coerenza e la coesione del testo in sé, mentre un terzo asse collega il singolo testo con il macrotesto autoriale e tutto ciò che vi sta attorno, fino all’epitesto.
Una nota si impone sulle scelte degli autori, che ribadiscono da un lato una certa cautela di Galaverni, motivata da quanto detto in apertura, nel riconoscimento di autori e testi contemporanei tramite l’implicito inserimento fra quanti hanno scritto testi memorabili per pregnanza quanto gli inclusi. Questo, mi pare, era già un assunto della visione post-apocalittica di Dopo la poesia, più o meno ribadito da altri lavori quali (almeno) l’antologia Dopo la lirica di Enrico Testa e La poesia è finita di Cesare Viviani. È proprio Testa infatti a scrivere ”Quale poeta cinquantenne ha oggi la riconoscibilità indiscussa che ebbero, alla medesima età, autori di un recente passato?” (pp. xxxi). Ovvia la risposta: nessuno.
Mi concedo al proposito una riflessione personale: la poesia è finita, davvero. Non ho le idee chiare su quali siano gli indicatori più autorevoli per riconoscere l’inserimento di un poeta nel Canone (ah, Bloom!), né se questo è davvero essenziale per chi, comunque, vuole giocare una partita su altri tempi rispetto a quelli della cronaca spicciola delle antologie e della premio poli, delle comparsate da caso umano in tv, delle recensioni di comodo – della scambiopoli che insomma non credo sia mutata dai tempi di Omero. So però che un Canone esiste, e mi è evidente che è fermo, anzi chiuso all’altezza di Montale (anni 1880, e cento anni dal punto di vista editoriale). Già la generazione del 1910-1920 (ragazzi come Sereni, Luzi, Zanzotto, Giudici) non ha rappresentanza adeguata, a partire dalla scuola (che rappresenta pur sempre la trasmissione del sapere, se vogliamo un po’ di banalità); non parliamo di un Raboni (1930), dei poeti contemporanei o viventi...
Il problema non è tanto la pratica poetica (che continuerà fin che ci sarà la scrittura) né il riconoscimento reciproco all’interno della sparuta comunità dei poeti (non dei poetanti), i quali si costruiranno sempre una antologia personale e operativa; e nemmeno sto parlando di quei critici (sempre meno) che probabilmente continueranno (sempre meno) a interessarsi al farsi della poesia. È chiaro però che se la scuola (tutta) non aprirà le porte al contemporaneo (e non solo della poesia), se troppi critici esiteranno anche per giusto scrupolo ad ampliare il pantheon con poeti più o meno viventi, la poesia come genere letterario, come pratica dell’interpretazione della realtà tramite l’immaginazione della parola (quindi concretissima) finirà.
Preciso, non amando le polemiche: questa non vuole essere (e spero sia chiaro) una critica all’operato di Galaverni, che dal suo punto di osservazione sa bene che può bastare anche “un poeta per secolo”, e che comunque comprende come una (aleatoria) centralità della poesia sia finita per sempre con la triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, la quale era basilare e formativa per i ceti intellettuali borghesi di inizio Novecento: quella generazione è stata l’ultima (the last, non the latest), perché già Montale sperimenta dal 1925 in poi una divaricazione che lo porterà naturaliter all’ultima fase in minore (anche se non minore).
Inutile quindi, proprio per il criterio di costruzione del saggio, fare il solito giochino degli inclusi e degli esclusi: vero, Galaverni ha scelto due poeti nati nel 1957 (Magrelli e Pusterla), riconosciuti e significativi; i tre testi più recenti datano al 1989 (Pusterla), 1992 (Magrelli) e 1999 (De Angelis), e quindi non superano la soglia del millennio. Giusto? Eccessivamente cauto? Il punto centrale, da un lato, è l’eccellenza seminale del libro che ne è nato; poi, forse da un critico che è comunque nato nel 1964 ci si poteva attendere qualche scelta più recente, più o meno ovvia. Ma per quanto detto la posizione di Galaverni è quella di assoluta libertà, anche da quelle contingenze che potrebbero minarla. La sua accezione di “contemporaneo” è molto cauta ma credo giustificabile, perché implica un riconoscimento finale all’interno di un canone minato nella sua credibilità e forse non più proponibile.
È chiaro che non tutti sono disponibili ad accontentarsi dello status di “poeta minore, non eccessivamente disonesto” come dichiarò di sé Basil Bunting (1900-1985). Per fortuna la critica (che deve avere a che fare solo con la definizione del concetto di valore e della sua applicazione all’esistente) procede come detto anche sui binari di una vivace (a volte litigiosa, non di rado faziosa) militanza dentro il contemporaneo più stretto, e dovrebbe essere la dialettica fra queste due componenti a portare comunque avanti l’idea della poesia.
E dovrebbe proprio, perché se ciò che resta alla poesia è a rischio, ciò che resta alla critica lo è ancora di più.
Sarebbe comunque importante, e lo dico non tanto come sfida ma come onesta proposta metodologica, verificare se la ricchezza e profondità di spunti (uso il termine faute de mieux) messi in opera da Galaverni su nomi già attestati non sia possibile con altri poeti e testi più recenti.