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Caro Biagio, caro Franco. Un libro salutare

Il dialogo intessuto nelle lettere tra Franco Loi e Biagio Marin è una salutare lettura per chi vuole lasciarsi occupare dalla poesia. Il libro che le raccoglie, curato da Edda Serra e pubblicato lo scorso anno dal Centro Studi Biagio Marin in un bel volume di Fabrizio Serra Editrice di Roma, m’è stato donato da Loi durante uno dei nostri recenti incontri ed è una delle più belle letture che mi è capitato di fare. Nel dialogo iniziato nel 1981 fino alla scomparsa di Marin, tra il più giovane Loi e l’ormai anzianissimo e quasi cieco poeta di Grado le “scorie” letterarie, le notiziole su pubblicaizoni, onori, occasioni sono minime. Vi si liquidano in poche righe ad esempio le incomprensioni di Mengaldo e della critica. O si trovano certe forse frettolose valutazioni sulla poesia italiana, specie da parte del Loi battagliero a favore del versante dialettale. Ma si tratta, appunto, di poco rispetto al corpo del libro. Tutto verte – in un rapporto tanto intenso quanto desiderato- sulla messa a fuoco laboriosa e atletica ( l’atletismo della amicizia e della stima reciproca) della inerenza di Dio nella esperienza personale di entrambi gli autori, vicini e lontani per vissuto e percorsi culturali. Un Dio continuamente creante e “letto” nel farsi della natura e del mondo per Marin e in interiore homini, chiave e ultracoscienza, per Loi. Ne viene un botta e risposta sempre attento, generoso, mai perso in salamelecchi ma concentrato e ricco. Loi – lettore e estimatore di Noventa- che aveva conosciuto Marin a una cerimonia in suo onore a Grado, cerca subito dopo il grande poeta e stabilisce una interlocuzione dove la sua figura più giovane si pone per Marin come occasione di confronto libero e aperto. Il discorrere passa con libertà dalla citazione colta – i due si rivelano formidabili e vasti lettori, dalla filosofia alla letteratura russa, dalle Sacre Scritture non solo di tradizione giudaica cristiana alla migliore poesia- fino alla affettività amicale e familiare. Loi non dimentica mai di salutare la figlia, sorridente e luminosa, di Marin. Il tono, quando anche il dialogo si impenna e quasi a spirale tocca i vertici di una indagine sulla natura di Dio e della sua relazione con l’uomo e con la storia, è sempre quello della riflessione simpatetica. Non vi è solo acribia e tenacia – cose necessarie quando si affrontano cose capitali- ma anche tenerezza, confessione, ascolto. In particolare il vecchio gigante di Grado ogni tanto si mette a ricordare. Sono belli i punti in cui ricorda i suoi amici e lui giovani, fino a rivedere Jahier, Prezzolini… Marin parla dalla situazione di uno che arrivato alla soglia dove il “vento de l’eterno si fa teso” ma anche con gli scarti e la freschezza di uno che, grazie all’interlocutore, come lui stesso ammette, riprende in mano il filo di certe osservazioni, di certe persuasioni. Ripete a Loi il suo senso del divino presente nei dettagli, riconosce il valore di esser cresciuto dentro una grande tradizione – più viva e significativa di quanto abbia potuto conoscere il poeta più giovane. E anche il,distacco da quella,tradizione per una elaborazione più personale e intima. Ma mai appare polemica la elaborazione di un proprio senso religioso. Marin racconta all’amico l’onore e la vivezza di una conversazione avuta con un importante cardinale austriaco, Koenig, che è andato a trovarlo.

Il dialogo è anche da questo punto di vista interessante, ovvero notare come il “distacco” da una certa tradizione e dalla pratica di una religiosità ereditata avviene non per polemica, ma per approfondimento e senza, per così dire, negare nulla di quel percorso. Così, letto ora, questo epistolario diviene anche un formidabile documento di un passaggio avvenuto tra personalità della più profonda ricchezza umana e culturale che non si sono distaccati da una certa esperienza cristiana e cattolica per una polemica, semmai per una insufficienza da parte di quella tradizione di abbracciare la tensione speculativa e la inquietudine esistenziale di molti suoi figli. Ma è soprattutto un dialogo tra poeti, dove appunto l’arte della poesia è vissuta come riverbero è messa a fuoco di quel genere di problemi primari e eterni. Pronunciabili forse solo attraverso la esperienza poetica del linguaggio. Col che si nota quanto la riflessione su questo genere di cose non è a lato o a premessa della esperienza poetica, bensì suo ambito e necessario nutrimento. Torna dunque in scena – come era all’origine della tradizione di trovatori e poi dello stilnovo fino a Dante, la contiguità tra una riflessione sul senso ultimo delle cose, in relazione allo specifico della percezione e della esperienza umana, e la riflessione sul gesto poetico.

A volte Loi commenta con partecipazione alcuni versi di Marin tratti dai libri che gli arrivano con dedica dall’ormai amico. Si vede che gli impegni del più giovane aumentano, spesso oppresso dal lavoro o anche da qualche acciacco, mentre Marin sente a volte di muoversi nel vuoto. I due uomini  non mancano di sensibilità sociale e “politica”, come si vede in una bella lettera dove Marin si stupisce di come la cultura che è “fame di Dio” non sia considerata ( specie dal partito cattolico e da chi dovrebbe aver maggior senso di responsabilità verso il popolo.)

L’epistolario, composto anche da lettere di Loi non spedite, che la curatrice nel suo splendido lavoro ha recuperato, arriva fino al Giugno dell’85, pochi mesi prima della morte di Marin.

L’ultima dell’anziano poeta è un grido di dolore per Trieste.

In definitiva un libro che consiglio a tutti coloro che amano la poesia, specie tra i più giovani. Un documento intimo e forte e ricco di correnti ventose di pensiero e libertà. Beni urgentissimi.

Davide Rondoni

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