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Tutto il silenzio che serve per trovare una parola vera

di Francesca Delvecchio

Cardiopoetica, Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera, Edizioni Ensemble 2017

 

Silenzio, dubbio, parola: sono i titoli delle tre parti in cui è divisa la raccolta Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera.
Tre termini che si diramano con forza nell’opera di Cardiopoetica – collettivo composto da Mariano Macale, Fabio Appetito e Marco De Cave – e ne scandiscono la simbologia e i significati. Tre espressioni che calcolano il peso della società all’interno delle nostre vite e ne cercano la forza per uscire dalla convenzionalità, alla ricerca di quel silenzio che ci salverà e troverà, dopo aver superato il dubbio, la parola vera per vivere davvero.

Il silenzio è la prima traccia da cui partire e che si fa archetipo e sinonimo di più significati.
Viene inteso come momento di calma, di pausa dalla vita frenetica di tutti i giorni. Non è solo un istante di pausa empirico, ma anche e soprattutto esistenziale in cui ritrovarsi e sentirsi. Si deve poter “restare in silenzio davanti al nulla”, ricordando, quando sarà passato, che in quei momenti non importa niente, solo sentire, vivere come in un sogno, per poi dimenticare. Sì dimenticare, ma anche ricordare, perché nell’istante in cui il silenzio prende la parola e parla dentro di noi, come spugne, abbiamo bisogno di assorbire questo qualcosa che ci parla per nutrirci e andare avanti.

Allora in un testo come “Quando accade che è il vento a calare”, in cui la versificazione crea lo spazio bianco, adatto ad accogliere questo momento di silenzio e in cui la temporalità si mette da parte a favore della spazialità, sappiamo che “non una parola potrà guidarci / quando dalla solitudine / abbiamo appreso tutto”.

Si può apprendere tutto, perché la vita sociale è una farsa, una escalation di dolore che ci allontana da quello stato di ispirazione che fa vivere. “La vita violenta mi possiede / fuori dagli orologi di carta” e anche con la prosa si ribadisce quello che la poesia esalta: “Vedo il vuoto in molte vite, lo riconosco, lo fiuto a metri di distanza, perché il vuoto ha fatto parte di me e sempre ne farà parte. [...] In tanti chiedono silenziosamente di morire, e stanchi trascinano l’esistenza, verso pensione, tabacchi e nipoti. Che c’è di male? Niente. Ed è proprio questo il punto: la perfezione chirurgica con la quale si evita o si nasconde il male.”
Va tutto bene, la vita sui social è una meraviglia, le foto sono bellissime. Che male c’è se qualcuno si arrende, se non ascolta il silenzio, perché quel silenzio in fondo all’anima fa paura ed è dolore puro, non come quello mascherato che proviamo quando guardiamo il tg?

È vero: il dolore è identico ovunque.
Soffrono sulle Ande, sull’isola di Adak,
e ad Hanga Roa. Soffrono in Malesia, a Lima
perfino nel villaggio di Supai.
Per un alluce rotto, un molare cariato
un enfisema polmonare.
Soffrono per l’eccidio di un gregge,
un’alluvione, l’ultimo battibecco di una valvola
cardiaca con la vita.
Soffrono a primo acchito, soffrono temprati
soffrono con cura.
Lamentosi o cheti
in un’auto come in un monolocale.
Il dolore, ripeto, è dolore.
Tranne che qui, tu
abitacolo di assenza.
Qui il dolore è già in cancrena.
Le ombre mammifere allattano i lemuri
gravidi di odio e diffamazione e precipizio.
E allora è vero: il dolore è dolore ovunque
ma dapprincipio è grazia
per chi non t’ha mai intravista.

(F. Appetito)

E se il dolore è dolore ovunque, il silenzio non può che essere, appunto, solitudine. Parola dalle accezioni molteplici, dato che può essere intesa come stato di isolamento consapevole e desiderato, ma anche non voluto e indotto da un modo di vivere o da un sistema, nonostante si viva comunque in mezzo agli altri. Allora “Di’ di me”, esorta la voce poetica ad un tu femminile, che solo alla fine del libro si capirà essere un tutto e un niente (una donna, l’amata, una bestia apocalittica, una cartomante, l’ispirazione, la poesia personificata o l’essenza stessa di quel tu, a cui si rivolgono sempre i poeti – il tutto e il nulla). Raccontami, Puoi, Solo tu puoi, se c’è stato amore, di’ di me tutto, il bene e il male. “Sai ce n’è bisogno. / Sono già stato dimenticato da chi oggi mi ama”.

Alla fine della prima parte si avverte sempre di più il cambiamento e il passaggio verso una fase di dubbio. Tutta la raccolta è uno scandire di tempi – tempi verbali, vitali, famigliari, naturali, sociali – e si passa dal futuro della prima parte, al passato della seconda fino al presente della terza. Il cambiamento e i passaggi iniziano quando il mutamento diventa un ricordo scritto al futuro e sulle orme dei grandi poeti del passato (i più evidenti e citati, Montale e Leopardi) la poesia si fa racconto di un momento di addio.
Se nella penultima poesia della prima parte, viene da pensare a I limoni, che ha un ché di ricordo, trasformato in mutamento dal tempo futuro: “Accadremo che saremo diversi / un muricciolo appena scorticato e giovane”; nell’ultima la mente torna a Casa sul mare.

Il mio ultimo giorno lo passerò con te,
al mare.
Sì, tu non ci sarai. Non ci sarò nemmeno io,
cronico ritardatario. Ma non ha importanza
esserci, per certe cose.
A volte è sufficiente sognarle.
Sarà una di quelle fredde giornate
di sole, quelle in cui neppure i poeti
si sforzano di trovare chissà quali
parole. Non versificano, non toccano
punte auliche, lasciano fare al resto,
per una volta si lasciano scrivere addosso.
E allora ci saranno i gabbiani e i cavalli a riva,
e qualche lontanissima persona,
un brusio di onde, un acciottolio di passi,
un cameriere invisibile come dio,
al servizio della nostra umanità.
Prendi qualcosa? Oltre al caffè,
che ti è sempre piaciuto senza zucchero,
oltre al libro che porti sempre con te,
oltre alle navi ferme nel porto del tuo cuore,
cosa prendi?
E tanto silenzio che fa rumore,
tante cose da dirsi in questa ultima giornata
mentre il sole lento va al tramonto,
ma non vorrebbe andarci,
vuole restare lì con noi, i cavalli, i gabbiani,
tutto il mondo si è fermato in attesa
di un gesto, di un’entropia che riporti
tutto a com’era prima.
Si dice che tutto torni, si dice che tutto si ripeta.
Ah, dolce condanna, innamorarsi ancora
e ancora
e ancora
di te.
Si farà tardi, ma non sarà troppo tardi.
Il bar starà per chiudere, arriva la marea,
arriva la notte, tutto si approda
ma niente si perde per sempre.

(M. Macale)

Viene quasi voglia di ridare un significato nuovo al celebre testo montaliano, come se quello che tutti gli danno da decenni fosse sbagliato. E forse è giusto invece il nuovo suggerimento che questo testo sa dare: la poesia la si incontra sempre ovunque. La chiave è saperla notare, sentire, ma anche quando non si riesce e pare che tutto sia un addio, sulla spiaggia, vicino al mare, dove “il sole lento va al tramonto, / ma non vorrebbe andarci”, lei è lì, dentro di noi ed è una “dolce condanna, innamorarsi ancora / e ancora / e ancora / di te”. Su “questa spiaggia / che tentano gli assidui e lenti flussi” c’è il momento dell’addio, l’ultimo giorno, in cui finisce il viaggio e “si farà tardi, ma non sarà troppo tardi”, perché “Il bar starà per chiudere, arriva la marea, / arriva la notte, tutto si approda, / ma niente si perde per sempre”.
Quel che deve restare resta e “l’avara speranza” è una luce in fondo all’animo che non si spegne mai, anche quando pare che lo faccia. La poesia ci accompagna sempre, illumina i momenti, li rende trasparenti come lanterne, poi anche se soffia il vento e il momento scorre via, quella luce rimane... sulla pagina.

 

*

 

Il silenzio è il momento del sostare sulle soglie della vita, quando ti accorgi che qualcosa sta per succedere, ma non sai bene che cosa e perché. Allora sorge il dubbio, l’ipotesi maledetta che ti fa pensare di esserti sbagliato.

Se prima c’era il silenzio della previsione dell’allontanamento, ora il dubbio lascia il posto alla certezza. La vita è inquietudine e si continua a studiarla, a fissarla e a scriverla per darle un senso, un ordine o almeno provarci.

Non posso più avere la forza
che tu mi chiedi.
Di quello che tu puoi testimoniare
come enfasi o rigolo di spuma divampata
c’è la meticolosa impervietà
e questo sole che ti restituisce
con le venature di cielo aggrinzito
un dagherrotipo che ci fa d’epoca
da non riconoscerci.
Eppure le scelte sono un bersaglio
scardinato, fuori mira:
lo scolio degli occhi, l’emiro
ricoperto di sputi.
[...]

(F. Appetito)

Quindi dubbio. Il dubbio percorre ogni poesia della seconda parte, che è calibrata su una dualità del tema trattato e il tempo diviene protagonista sovrano di ogni brano. Il tempo trascorso o che ancora passa scandisce il ritmo dando al dubbio modo e spazio per crescere e dilagare ovunque.

Vorrei essere chi ti sa a memoria
saper scrivere quando è il corpo
che termina il verso
sapere puntuale quando saltare
la cena e le distanze
tra di noi
quando battere un colpo ai ricordi
è farsi prendere
dal vicolo del mondo.
Vorrei che tu sia ciò che non puoi tu essere altrimenti
quando tutto ci spinge al crepaccio delle cose
e si fa cortile della notte
e si ritorna spazio tra questi corpi:
e se allora in caso di te
tu accada,
l’amore sarà tutto l’amore.

(M. De Cave)

Ma alla fine: “Ogni tanto tornerai a dubitare, è normale. Ogni tanto sì, penserai ancora che le stelle sono banali, che i crepuscoli non servono a niente, che la verità non ha poi tutta questa importanza. Ma c’è un punto oltre il quale fingere diventa pericoloso: [...] Non puoi procrastinare la cura di te, non puoi seppellire l’ascia di guerra se sei chiamato ancora a combattere contro mostri ostinati e stupendi.”
La società in cui viviamo ci può mandare in crisi facilmente, mettere alla porta, può sparare a fuoco sul nostro ego e distruggere l’autostima, ma l’io poetico non ci sta. Sì, può venire il dubbio ogni tanto, alla fine però, la parola vince sempre.

E la parola è universale, può esaminare e affrontare tutti gli aspetti della vita.
Dalla parola scritta – nata dal silenzio – usata per comunicare amore:

Un giorno lo farò,
prenderò la penna, un foglio,
e inizierò a scriverti,
ma non come fanno
certi mittenti distratti
che dettano telegrammi:
«Auguri Mister Green»,
mentre seppelliscono
la libertà in cortile
barattandola con un vicino cortese,
patriota e moderato,
collezionista di caravelle
dentro bottiglie
scolate da altri diversi da lui.
E non ti scriverò neanche come fanno i poeti,
quelli che fanno baciare le rime
ma che usano i preservativi
per timore di partorire un Capolavoro:
la Bellezza non nasce mai per caso,
ma per amore.
[...]

(M. Macale)

Alla parola del racconto epico, che passa attraverso la storia e la quotidianità per affrontare anche il sociale, la sessualità, i modi di pensare: “Conosco i miei demoni / la notte che si sussegue, più scura / guidata da Cassandra”; “Conosco la tua espressione quando ti svesti / di cui nemmeno tu hai nozione / e il modo in cui ti versi ancora nel cucchiaio / lo zucchero di canna”.

Infine, dopotutto, la parola è il metro per misurare tutto e per considerare questo libro di Cardiopoetica anche come il lungo racconto di una storia d’amore. La storia con lei viene narrata nei momenti quotidiani fino a quando un addio ne sancisce la separazione. Il tempo passa e nelle descrizioni c’è il ricordo di lei e di come era starle accanto, fino a quando il senso dello scrivere si materializza e diviene il soggetto stesso della scrittura: “scrivere sulle ossessioni che si possono / curare / quando tutti ti davano per spacciato / quando tutto è scritto”; “lasciare un foglio vuoto per noi / per scrivere / sulle ossa / sul coraggio sull’ordine naturale / delle cose / scrivere con la gomma / ciò che ci aspetta gli attimi in cui non siamo più soli”.
Perché:

Sono certo che esistano
certi polmoni che non ci lasciano
respirare
e che rinunciare alla fotosintesi
è quando manchi nelle giornate di sole
per affondare nella vita come ci viene:
e ci scommetterei
su noi che restiamo
gelosi degli accumuli di ricordi
di vite a casaccio
passate ad approvare le approvazioni
scommetterei
che abbiamo lasciato da tempo
l’accensione
il sangue controcorrente
per raccontarci cronache tra sopravvissuti.
Quanto silenzio, amore mio,
per una parola vera.

(M. De Cave)

Cardiopoetica è un trio di scrittori: M. Macale, F. Appetito, M. De Cave. Premio Fabrizio De André per la poesia 2015 (Macale) e premio Merini-Brunate 2016 (Appetito), nonché vari premi minori. Hanno all’attivo varie pubblicazioni (Quanto Silenzio, amore mio, per una parola vera & State Scherzando, Vero?, Ensemble; Resushitati, Il Foglio Letterario), varie antologie (una curata da Alessandra Bava con introduzione di Jack Hirschman), canzoni scritte per vari artisti (tra cui Pino Marino), hanno collaborato con Massimo Giuntini ex Modena City Ramblers e Pino Insegno (Teatro Quirino, Roma 2018)Curano una trasmissione seguitissima su Radio Bulletspremio Google nel giornalismo digitale (2016). Sono stati ospiti 2 volte su Radio24, con Davide Rondoni e Francesco Venditti. Il monologo “Ci chiamarono tutti Alda” è stato censito da Rainews 24 e da Corriere TV. Hanno collaborato con Terra NulliusTre RaccontiRivista di Studi Italiani; compaiono nel censimento della Treccani sui poeti contemporanei. Tra 2017-18, hanno fatto più di 60 spettacoli di reading in tutta Italia. Hanno presenziato i principali festival letterari.

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