di Francesca Delvecchio
Cardiopoetica, Il bene dopo di noi, Ensemble 2020
Accade qualcosa. E subito si parla di prima e dopo.
Qualsiasi cosa può succedere tra il prima e il dopo. Un litigio, un chiarirsi, un incontro, la morte o l’allontanamento di qualcuno.
Ho letto questo libro durante una quarantena di cui tutti hanno parlato, che tutti abbiamo vissuto e ancora stiamo capendo come liberarcene. È incredibile, mi sono detta un giorno, come riesca questo libro a parlare bene di quel che stiamo passando in questo periodo di vita, di come riesca a raccontare i tempi in cui lontananza e vicinanza si guardano allo specchio. “Chiamami, domani o i prossimi giorni. / C’è ancora quella vecchia cabina da qualche parte. / Chiamami. L’ultima volta ho tralasciato l’inutilità dei saluti. […] Sarà una di quelle chiamate in cui potremmo ballare in salotto / e ridere degli altri e fare finta che è stato così semplice / arrivare fino a qui.”
Non nominiamo il virus, mi son detta. Eppure, questi mesi di quarantena rimangono l’esempio ideale e più immediato per comprendere e dire che la poesia parla di noi, della nostra realtà e di ciò che ci circonda.
[…]
Un’Europa intera che non sa, non immagina.
Ti ho salutata, come si saluta
un vecchio caro, una lettera anonima
una coletta tra le rocce.
Ti ho salutata e mi è parso di perdere la mano
e di sentirla rompere
frantumare nelle bocche dorate dei rigattieri.
Ci si saluta e chissà se ci si rivede. E se passa il virus, chissà poi cosa succede. Penso.
Ora ti immagino da qualche parte
nella tua giacca a vento,
in quell’inquietudine che sorride, viva
tra la saliva inutile dei malati terminali
[…]
E se varrà qualcosa, se di capelli
rivoltati nelle lenzuola, se ci troverà
chiunque, appena assopiti
o su un treno strettamente lontano
se a vincerla sarà piuttosto il batacchio
che batte, uguale, sui lati
sulla mia e sulla tua faccia
riguarda il bene. Solamente il bene.
Il bene dopo di noi.
(Fabio Appetito)
Il bene dopo di noi riporta la storia di due persone che si sono viste, incontrate o vissute. Ma tutto cessa e si interpone una distanza, un ricordo che si fa ponte verso un’altra dimensione temporale, spaziale, ma anche metafisica e risolutiva: quella della lontananza che si fa vicina nel ricordo di un tocco o di qualcuno che una volta era nella nostra vita. C’è una lunga e vasta ricerca del momento di attesa della parola e della poesia, che infine arriva e sboccia in scrittura. L’abbiamo visto e analizzato nel primo libro dei Cardiopoetica. È proprio questo il momento di cui parliamo: quello in cui, dopo l’addio, le parole arrivano e le si incastra sulla carta. Si prova a raccontare quel che è successo e le voci che lo fanno sono tre, quelle che compongono il trio: Fabio Appetito, Mario Macale, Marco De Cave. Com’è possibile dare il resoconto di una storia d’amore conclusa, iniziata tra l’altro proprio nella prima raccolta, da tre punti di vista diversi? La forza di questo libro risiede proprio lì: nell’incastro congeniale di tre voci che si fanno una e ci riescono senza sforzo. Ognuno di loro apporta frammenti dalle proprie esperienze e le diversità di stile fanno trasparire che le emozioni possono coincidere e creare qualcosa di universale. La poesia non è mai fittizia e può diventare lineare: raccogliere, cioè, tutte le oscillazioni delle onde sonore per riportarle in riga e creare un suono nuovo, più intenso e ricco. Quindi una storia d’amore raccontata da più voci che senso ha? Quello di raccontarsi per sé stessa e diventare un essere vivo e indipendente, che si propaga tra quello che succede prima e ciò che avviene dopo.
La raccolta, infatti, è divisa in quelle due parti: il prima e il dopo. Poi c’è l’ora, ma non raccoglie poesie, per un motivo che sveleremo alla fine.
Non sono mai riuscito a parlare di te
a nessuno.
Né di tutto quel prima, né di tutto il dopo.
Forse è stato meglio così: non aver compreso,
non essere riusciti a farsi capire.
Forse è questa incomunicabilità
l’ultima parete di vetro
al di là della quale
giace un niente.
(Fabio Appetito)
Il tempo tra il prima e il dopo è irrisorio, è un hic et nunc, volatile e leggero. Non ci si accorge quando succede, se non quando già è stato. Però è e passa. Lei, invece, è il punto fisso dell’io poetico. Grazie a lei e al ricordo di lei nasce la scrittura e la poesia.
“Ho cercato […] Qualcosa da dirmi nell’attesa, una sorta di ricompensa mentre traccheggiavo con le solitudini che portano tutte la tua sottile indifferenza. È servito del tempo per capire che volevo soltanto rivederti, parlarti un po’ […] Chiederti se ti andasse ancora di restare cinque minuti o una vita, a me, del resto, andrebbe bene uguale.” (Passaggio in prosa che l’autore mette in corsivo).
Non importa quando c’è stato il loro incontro, ma solo che è avvenuto. Ci sono passaggi e sguardi di vita quotidiana che si fanno sigillo di un tempo universale, che scorre diremmo, ma in realtà è eterno e sembra fermo nel ricordo. “Solo alcune cose / hanno senso, altre no, / altre lo attendono. / Ha senso la tua espressione / la mattina di Natale, […] innamorarsi per sbaglio di te alle tre / del pomeriggio, lasciarti millenni dopo / per scoprire che il tempo / è solo un pretesto”.
Poi c’è il futuro. “Ci ho intravisti abbracciati, intenti a non capire tutto quello che sarebbe successo dopo, […] e ho spiato il futuro a tal punto da esserne quasi un ladro, tentato dal desiderio di rubarlo”.
Si immagina che lei sia nella stanza accanto e risponda a una sua domanda. C’è un continuo distacco che ritorna e un costante desiderio di unione e incontro. Si immagina una vita con lei, una vita che magari c’era e c’è stata, ma ancora non lo sappiamo con certezza.
Il loro incontro all’inizio è vago e sospeso, in un’assenza di luoghi definiti. Diventa poi più reale:
C’è stato
un punto geografico preciso in cui siamo stati insieme:
erano nate intorno basiliche,
mercati arabi, giardini botanici;
c’era un porto più di tutti che ci ha accolto
un contrappunto delle mappe nautiche, il santo pensiero
della salvezza.
Il vento sfiorava i nostri risvegli
trasaliva il lucido intervallo dei sogni
sotto l’ombra dei pini.
Poi in un punto altro tutto si sfalda,
uno sperone sul vuoto rimesta la caduta e non c’è più contatto:
il tuo chiamarmi, solo, dentro il mio vociferare.
(Marco De Cave)
E, a tratti, si fa sempre più simile a una lontananza definitiva.
Non so granché di te,
delle assenze che abiti
e dei pensieri segreti degli altri,
non conosco il tempo
in cui ti prendi cura di quella che sei,
la quiete con cui domi il casuale
morire di un giorno
o il chiarore, improvviso,
di chi non ha più nulla da dire
nel guardarti sorgere
dalle ombre di ciò che si ignora.
Non so l’ora del tuo svestirti,
com’è il tuo passo alla compieta,
e quale profluvio
si porta via le vecchie e solite
paure,
non so i me che è necessario
uccidere
per riuscire a sentirti, così reale,
in una panetteria, nella galleria
di un teatro, nei sotterranei
pertugi di una città.
Non so cosa voglia dire vederti,
e non temere più
che tutto cesserà di esistere.
(Mariano Macale)
Il libro gioca su un equilibrio di spazi e tempi che misurano il distanziamento. In certi brani si pensa alla morte di lei, quella fisica: “Tu che ancora abiti il tempo non lasciato alle ore / riconosco l’attacco dei tuoi dubbi alle aorte / le nostre voci estratte dai viventi /quando abbandoni le flebo piumate”. Invece, si tratta di quell’allontanamento dovuto, quando una relazione finisce e ci si impegna il più possibile per non ritornare a sentirsi, perché tutto è finito. Si entra in un’altra dimensione, indefinita, una sospensione tra il ricordo di ciò che è stato e il pensiero di quel che poteva essere. Chi ci è passato, lo sa. Sente che qualcosa manca e cerca di convincersi che non deve mancare. “Vorrei poter tornare / nei nostri posti / e chiedere ai passanti immobili – statue, alberi, panchine – / com’è che siamo passati”.
La distanza dei corpi produce una dilatazione del tempo di vita. Un effetto tanto simile a quel che abbiamo sentito nel periodo di quarantena. “[…] così sono un sopravvissuto alle notti / normali / ai giorni uguali […] la notifica del tempo senza di noi / il lampo nella stanza / i riflessi digitali del viso nel buio: / «Come sei stata senza di me, oggi?» / mentre dietro lo schermo nidifica il vuoto / nel subbuglio dei cavi si conta il tempo”.
E nella solitudine della vita, il vissuto si fa ricordo e lo si congiunge a qualcosa più grande e forte di noi.
Si ha una percezione diversa di quel che passa, quando tutto è fermo e uguale:
“Deve essere stato quasi un caso incontrarti: quello che infine chiamiamo destino non è che un altro modo per giustificare le scelte che facciamo. […] non è a questo che servono i ricordi? A dare un senso al sequestro del tempo che ci detiene dentro questi corpi.”
Bergson parlava di “tempo della scienza”, quello spazializzato e meccanico nella sua ripetizione, e di “tempo della coscienza”, inteso come interiorità e durata, flusso continuo. Quest’ultimo è un tempo qualitativo, si mescola con il ricordo e il tempo della vita vissuta. Il ricordo può essere puro e rappresentare tutto il nostro passato, in una memoria profonda e complessiva; oppure è un ricordo-immagine, il prodotto della relazione tra il nostro cervello e la nostra coscienza, un ricordo frammentario, che si forma dalla memoria di superficie.
In molti brani allora ci sono accumulazioni di oggetti o azioni, dove l’uso dell’oggetto o del termine quotidiano sono messi lì per ricordare al lettore che c’era o c’è ancora una vita a portata di mano, fatta di cose banali, ma che spesso la poesia e il suo messaggio sono in un’altra dimensione. E la porta di accesso è proprio il ricordo. Un passaggio stretto attraverso il tempo. Il mantenimento di un registro colloquiale, comunque, rimane la scelta di contatto diretto, per non divenire troppo astratti. La poesia è anche nelle cose di tutti i giorni. Ma non sempre l’io accetta i ricordi, tenta sempre di rimarcare il distanziamento: “Tieniti il tuo saper vivere giorno per giorno / i miei post-it conservati come uno stipendio / l’alta quota degli annegamenti. […] Tieni tutto questo, che io non lo farò: / mi terrò a debita distanza da questo spineto […]”.
L’evidente conseguenza è che il ricordo di lei e di ciò che sono stati insieme, così come il distacco si scontrano con il vivere come esercizio: si va avanti, che ci si veda o no, che ci siamo o no.
Vorrei tanto che mi prendessi la mano
conoscerti come le scorciatoie
ricordarmi che ciò che è invisibile
lo è finché nessuno lo nota:
cosa sai della mia vita
da quando mi conosci per sempre?
So che certe cose non vengono facili
anche quando pensiamo di avere molto tempo
invecchiamo e con noi l’inizio che abbiamo fissato
e il suo ricordo –
mai si svanisce del tutto.
Ora è mattino e ho avuto paura
non so cos’abbia visto vicino al cuscino
ma non c’è il tuo fiato
che muove le tende
i tendini di mezzogiorno:
non ci siamo incontrati prima di andare a lavoro
e siamo sopravvissuti, questa è la verità.
Il distacco è una forma dell’esercizio di vivere,
me lo sono appuntato sul frigo
quando tu non c’eri:
una lettera senza mittente
un rimorso sepolto
una stanza che ci ha regalato l’inizio,
ma non il prosieguo.
È da tempo che vorrei con te riconoscere di nuovo la pioggia
ascoltare le storie dello stomaco
i minuti in cui tutto rimane
come una lista di cose da non dimenticare
per spiegarsi invece qualcos’altro,
cosa c’era prima e cosa c’era dopo di noi.
(Marco De Cave)
Ora, dopo, per sempre (grassetti e corsivi miei), ma alla fine qualcosa rimane di noi, di te e di me. Siamo sicuri sia solo il ricordo? Per ora resta la bidimensionalità tra prima e dopo, così come era all’inizio del libro. E più avanti, per la prima e unica volta quel tempo tra le due dimensioni ha un’unità di misura: “un quarto d’ora era il nostro perenne ritardo sul miracolo / una stesura prima di orizzonti / dopo il tramonto: / dov’è che ora si vive?” Così come il loro lasciarsi trova uno spazio: “In un giorno senza dèi saremo al mare / ma non dove ci siamo lasciati. / Sarà un mare in una cartolina / sarà a sufficienza per tenerci insieme”. La cartolina è l’oggetto chiave, diventa emblema di ricordo, di viaggio e collegamento tra ciò che era ed è: “un mare familiare / prossimo / non segnalato da chi si perde a terra / dove è ancora possibile avere la speranza di salvarsi. / Noi saremo al di qua / perché abbiamo pronunciato la scomparsa”.
Abbiamo pronunciato la scomparsa… cosa significa? Che inizia il tempo della comprensione. Ci sono tre passaggi, raccolti in tre brani diversi che segnano le ore e il passaggio dal tempo del perdersi a quello della consapevolezza, quando non ci sono più scuse e tutto diventa chiaro, limpido. Non si può tornare indietro. Bisogna accettare.
“ora che ci siamo spogliati dal tempo / dallo spiegarci le cose”. Ora sappiamo cosa è successo, sappiamo cosa fare.
“Ogni scrittura inizia con una sconfitta e termina con una consapevolezza”. La sconfitta della nostra separazione e la consapevolezza che così deve essere. I tempi sono maturi per scrivere di te e di noi. E consapevolezza è anche capire che “ho cominciato a perderti dal primo momento che ti ho vista. […] Io so che non ti rivedrò mai più come in quel momento esatto, irripetibile. Sapevo allora che non ci sarebbe stato futuro, non per me o per come tutti lo intendono.”
E ora:
Non mi appartiene la tua mancanza,
non mi appartiene
la bellezza del saperti
arrivare e dirti «Hai fatto tardi»,
il parlare fitto dei passi
prima che tu apra la porta.
Non mi appartengono le tue abitudini di adesso,
i risvegli
e qualche nuova, antica paura,
le facce che tu vedi, le mani
che hai deciso di non sfiorare,
la soggezione degli astanti
che pensano di poter passare una vita con te,
che loro, sì, loro sono capaci di starci anche un minuto.
Non le aguzze cime che vedi nei sogni,
e quel che trovi
dopo il tuo tuffarti nelle acque dei mari:
non mi appartengono le enciclopedie
che pure di te, ci scommetto, saprebbero
dirmi
ogni dettaglio.
Non mi appartiene il sillabario
delle tue speranze, i tuoi oroscopi
addomesticati,
quieti nel saperti brillare,
il tempo prossimo degli astrofisici,
la storia che ti narri, il modo
con cui lasci che sia ogni tanto il caso
a raccontartela,
non mi appartiene questo cercarti
quando tutto tace, e non è nuovo
il mattino, non è nuova l’attesa,
la ronda notturna intorno all’immaginarti,
le primavere di ogni tuo stupore:
sarai un’altra in quest’appartenenza
più simile alla compassione.
(Mariano Macale)
Non ci sono brani nella sezione “Ora” del libro, solo una pagina bianca. Eppure l’ora lo si sente in tutta la raccolta. Cerca di emergere dagli interstizi, tra i ricordi di tutto quello che è stato. Ora cosa rimane? Il bene. Perché dopo che noi siamo stati quel che siamo stati, non c’è posto per recriminazioni o altro.
Comprendere quel che è stato significa abbracciare tutto il tempo, dall’inizio alla fine. E allora sì, ha senso parlare di prima e dopo.
“Ti attendo: / forse ora so cos’è il tempo”
Cardiopoetica è un trio di scrittori: M. Macale, F. Appetito, M. De Cave. Premio Fabrizio De André per la poesia 2015 (Macale) e premio Merini-Brunate 2016 (Appetito), nonché vari premi minori. Hanno all’attivo varie pubblicazioni (Quanto Silenzio, amore mio, per una parola vera & State Scherzando, Vero?, Ensemble; Resushitati, Il Foglio Letterario), varie antologie (una curata da Alessandra Bava con introduzione di Jack Hirschman), hanno collaborato con Massimo Giuntini ex Modena City Ramblers e Pino Insegno (Teatro Quirino, Roma 2018). Hanno sviluppato la trasmissione "Sguardi InVersi" su RadioBullets.com. Alcuni racconti TerraNullius, Tre Racconti, Rivista di Studi Italiani; compaiono nel censimento della Treccani sui poeti contemporanei del 2019. Ideatori e organizzatori del più piccolo festival d'Italia, "PEN - Piccole Elegie Notturne". Hanno presenziato i principali festival letterari e i caffè di tutta Italia.
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