Home » Caratteri di Francesco Maria Terzago

Caratteri di Francesco Maria Terzago

di Fabio Barone

[…] Quando
mi sento solo vado a bussare alla porta di quella stanza
che faccio pagare poco. E se sono fortunato lo sento,
è lui, dall’altra parte. È il Tempo. A volte la ride
dietro a quella porta, altre volte piange e singhiozza.

Francesco Maria Terzago, Caratteri, Vydia Editore, 2018

«[…] consideravo un libro nuovo non come una cosa che avesse molti simili, ma come una persona unica, senz’altra ragione d’esistere che se stessa», accade leggendo la Recherche proustiana d’imbattersi in concetti dispiegati in modo così limpido da sbalordire, guardare la pagina e annuire. Ho avvertito la stessa unicità e limpidezza leggendo Caratteri di Francesco Maria Terzago. Intendiamoci, Terzago non è Proust, ma durante la lettura è impossibile non percepire quel flusso cospicuo, sotterraneo e ininterrotto, in questo caso contenuto dentro un linguaggio che possiede l’incisività del verso unito al «prevalere di un tratto narrativo», come ben evidenzia Gian Mario Villalta in prefazione, che caratterizza il romanzo-fiume del francese.

La voce di Caratteri sembra raggiungere la pagina come un fuori campo a sostegno della visione, là dove si intersecano realtà, memoria e immaginazione. I frangenti — non uso casualmente la parola — evocati sono eterogenei ma legati dal filo di una coscienza che un po’ racconta, un po’ commenta e soprattutto commemora:

La tapparella abbassata sta vibrando e il chiarore
che la attraversa fila un abaco sul grande tappeto
che ha portato dal magazzino di sua madre. Lei ora non c’è,
così posso fare i conti con i miei novemila giorni di vita.
Mi sembra una cosa ridicola. Un numero tanto grande
per qualcosa di tanto piccolo.
La plafoniera sospesa sul nostro letto
è un mondo freddo sporco, una molle sfera di polvere
inchiodata nel soffitto. Su quella calotta una bufera silenziosa
si flette su un gruppo di nomadi vestiti d’azzurro,
li vedo lì tutti i giorni, che non avanzano di un passo.

Commemora senza le vampe del lirismo e non idealizza, contornandolo, il vissuto. Sia chiaro, l’autore che ha scritto queste pagine è vivace, ma di una vivacità irrequieta, fin troppo consapevole della finitezza e fragilità della materia trattata: la realtà. Quella del paesaggio che si modifica attorno a lui, di cui Terzago è un acuto osservatore, ma anche quella realtà che lo scrittore imprime dentro di sé ampliando e modificando le forme della sua percezione, che poi sono quelle della conoscenza:

Il Mc Donald’s ha rimpiazzato la vecchia
caffetteria; una moltitudine di giovani
con il cappellino in testa: asiatici, dell’Africa e dell’Est
Europa stanno là, dove per tutti gli anni della mia vita,
ho visto quel vecchio dalla frangia grigia. Ha messo
le sue insegne gialle, Mc Donald’s, e dei larghi tavoli
di plastica scivolosa; il linoleum bianco sporco ha
sostituito le maioliche smaltate. Nel luogo dove
per lunghi anni una confortevole ombra
ha galleggiato, si è insinuata, munifica coltre
tra ferrovieri, vetturini, tazze grondanti, nasi fumanti,
passeggeri di ogni schiatta, di ogni tempo, ora sta
una luce alogena capace di sbiancare qualsiasi volto,
di contrarlo; entriamo là dentro e ci fanno indossare
a tutti la stessa faccia. […]

In Caratteri è la vita a offrirsi al lettore nel suo lavorio continuo, continuo al punto che l’autore intitola l’ultima sezione della raccolta “Intermezzo”. Intermezzo? Ovvero l’intervallo tra un atto e l’altro di una rappresentazione. L’intermezzo, forse, tra un ciclo biologicamente concluso di scrittura e un altro da scrivere. L’intermezzo fra una stagione della vita e il rinnovarsi, continuo, per accoglierne un’altra. Così fino alla fine, fino alla morte cellulare:

Anche l’aria ha cambiato le sue forme
invisibili e così è stato per la sfera celeste.
Le persone, anche quelle, sono
altre persone le case altre case, le
linee elettriche, le scie volatili, gli aerei
intercontinentali, e io, la diversità che è
in me? Ed è l’effetto che questi paesaggi
hanno sulla persona, questo
è un paesaggio dai fiori che uccidono,
che si uccidono. E che, uccidendosi,
rinnovano la vita – nutrono. I muri di cinta
traboccano di fiori, in estate numerosi frutti.
Le fronde sono incontenibili, sono un banco
di piccoli pesci. In questo pomeriggio
si cancellano le ombre, la statura delle figure
non ha più importanza. C’è ostinazione e speranza
nella luce omogena che, attinta, sale dal pozzo
dove si muove la terra e noi con essa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto