di Gianni Iasimone
Pasquale D'Alessio, Chopin mi sorride, Nolica Edizioni 2024
Guardate questi alberi, il vento scherza con le foglie,
desta la vita in esse, ma l'albero resta lo stesso:
questo è il rubato chopiniano.
Franz Liszt
Chopin mi sorride è il nono libro di Pasquale D’Alessio – poeta e scrittore, già co-organizzatore del Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi e presidente dell’omonima Associazione, già responsabile della Biblioteca comunale di Riccione, regista e autore per il teatro –, uscito da poco per i tipi di Nolica Edizioni 2024. Un racconto, recita il sottotitolo sulla bella copertina a colori disegnata da Roberto De Grandis (bravo pittore e grafico scomparso anzitempo, ricordato in epigrafe con una dedica all’inizio del libro), come a precisare che non si tratta di un altro libro di poesie di un autore sempre originale, decisamente a sé nel panorama letterario nazionale, come D’Alessio, ritenendo sempre valida la definizione di Fernando Pessoa: «la poesia è una forma di prosa con un ritmo artificiale».
Tuttavia non si tratta neanche di un libro di sola prosa poetica, semmai di felice incontro della prosa e della poesia, o più verosimilmente, necessario “accavallamento” della parola e del silenzio. Nel “tempo” ontologico della cura (la heideggeriana Zeitlichkeit), passato in infinite notti in ospedale ad assistere la moglie per un brutto male, prima della sua scomparsa avvenuta quindici anni fa, «Ho chiesto al mare / Di ciò che passa / Ho guardato le onde / È di come passa. È / Il senso del tempo» (p. 37). Un diario di malattia, e chi ha vissuto l’esperienza di assistere un proprio caro sa di cosa si sta parlando: un tempo che segue l’altalena dei giorni, fatto di ripetizioni, di attese infinite, ansia, soprassalti, frammenti di gioia e tanto dolore, soprattutto per l’impotenza, l’impossibilità di cambiare il corso del “destino” governato dall’inesorabilità del male. Pur conservando la fiamma della speranza che solo l’amore può tenere accesa. Dunque, senza attardarsi troppo su una trita retorica, l’elemento principale di questo diario intimo e personale è il tempo, ma il centro è l’amore. L’amore come visione assoluta de «l’Annunciazione. È silenzioso l’annuncio. L’angelo è appena arrivato…» (p. 42), e al contempo simultanea dell’avvento dell’indicibile, della separazione, della perdita non solo di chi ami, anche della parola, del senso. Qui sembra che D’Alessio, non solo poeta, rimandando la sua scrittura elegante e sensibile al suo interesse per l’arte pittorica, come ha suggellato nel recente inconsueto libro Piero della Francesca Sorella prospettiva, (CartaCanta 2022), più che dalla “tenera luce” di Piero venga sopraffatto dall’“ambiguità” – modernità – di Leonardo. Infatti, a un certo punto del racconto, sempre in un tempo incerto, in una stoica apertura sull’ignoto, l’autore ci propone a mezza pagina lo splendore del capolavoro di Leonardo (p. 42), «là dove amore e morte si sono toccati. E dove tutto diventa annuncio», come già scrive Davide Rondoni nella quarta di copertina del precedente libro di poesie Il suo annuncio, il suo tempo (CartaCanta 2021). Ma è con Chopin mi sorride che D’Alessio completa la trilogia dedicata alla donna amata, dopo Settembre (Raffaelli 2009) e l’appena citato Il suo annuncio, il tuo tempo, e da cui, “rubando a se stesso”, riporta alcuni passaggi chiave.
Ma, a differenza degli altri libri della trilogia, qui, pagina dopo pagina, più struggenti diventano i particolari della “scena”, soprattutto notturni, fino a cesellare, in un registro insolito, ogni oggetto, ogni gesto, fragilità del corpo che riconduce ogni essere umano alla verità. Con una prosa dalla morfologia franta e uno stile a tratti ecolalico, con continui cambi di ritmo che rimandano al cosiddetto rubato chopiniano, dal lessico semplice ma mai banale, strutturata con la stessa tecnica delle poesie fatte di versi sintattici alternati a versi perentori. Più profonda è la notte più profondo diventa lo sguardo, finché «UN RESPIRO DOLCE, COME IL VENTO DI LEVANTE, A FAR USCIRE, DAL CORRIDOIO DELL’OSPEDALE LA NOTTE. È il sospiro atteso dell’alba e ritrovare la luce» (p. 87). E come in un controcanto, un coro nella tragedia antica, dalla narrazione dolente, sospesa, aerea dell’“interno” dell’ospedale, D’Alessio passa – ci porta – come per alleggerire il peso della verità, in versi ancora più rastremati, all’“esterno”, al mare. Chopin mi sorride non è solo «un manoscritto lasciato in ospedale», come meglio precisa nel frontespizio del libro, è anche un’interrogazione – e anche una laica preghiera – lasciata in una piccola bolla di cristallo alla vastità del mare, alla sua luce: «Abbia questo buio riguardo e cali il cielo di tenerezza sulle nostre teste. / Buio, si lasci attraversare senza timore, consegni al nostro cuore lo spazio e il tempo che vive tra stella e stella» (p. 57). In essenza, un lungo respiro – «là dove si identifica l’anima» (p. 16) – che muovendosi tra narrazione e poesia, descrive in modo asciutto, icastico «l’epica di qualcosa, di un viaggio, di una guerra, di un’identità, come sempre lo è l’epica», come giustamente annota Gianfranco Lauretano nella puntuale e bella Prefazione. Tanti sono ancora gli “elementi” di questo libro, non ultimo le citazioni di versi di poeti mondiali e di scrittori, musicisti di cui l’autore ha fatto esperienza, sparse qua e là come stelle di riferimento, ma prima di lasciare queste pagine sempre accese non posso non addivenire al “broglio” primigenio, al peccato originale: Pasquale D’Alessio, pur vivendo da alcuni decenni a Riccione, è nato a Somma Vesuviana, sotto il vulcano, «in un tempo di pagano cristianesimo […] Un mondo prejunghiano. Si chiama Vesuvio. Mi ha insegnato che c’è bisogno di un canto», precisa l’autore nell’Introduzione, come a indicare una rotta più che una traiettoria. E il canto cui fa riferimento non è una canzone napoletana da cartolina, magari neomelodica, ma ‘a fronne ‘e limone, un tradizionale canto a distesa senza accompagnamento musicale che «cantava e narrava, socializzava l’angoscia del singolo, della comunità» (p. 15).
Insomma, D’Alessio ci dice da subito che la sua scrittura scaturisce dal bisogno primario di condividere il suo dolore. Nominare l’indicibile. A differenza dell’innominabile tempo presente, più umanamente, elaborare il lutto, come si faceva nelle piccole comunità contadine o marinare di una volta. Quando «l’individualità di un io sofferente – diceva Ernesto De Martino – diventava il noi» (Ibid.), affinché – per «poter calmare e parlare di un’assenza» (Ibid.) – attraverso il canto, lirico o popolare, come scriveva l’incomparabile Pier Paolo Pasolini nel suo Canzoniere italiano, «nel dolore si inveni sempre quel “barlume di allegrezza” di cui dice il Leopardi».