Daniele Mencarelli, Brucia l’origine, Mondadori 2024
Analisi dell’opera di
Francesca Delvecchio
Quanto influenza nella nostra crescita di esseri umani il posto in cui siamo nati e cresciuti? Dove ci si sente davvero se stessi: nell’immortalità dei luoghi in cui famiglia e amici di sempre continuano a vivere, o nella nuova realtà che ci creiamo? Brucia l’origine, l’ultimo libro di Daniele Mencarelli uscito nel 2024, affronta questa discrepanza nel personaggio di Gabriele Bilancini che, dopo più di quattro anni di assenza, torna a casa a Roma. Dopo essersi realizzato a Milano ed essere diventato un giovane e promettente designer di successo, Gabriele torna nel quartiere Tuscolano dove è cresciuto, dove nulla è cambiato: i genitori (padre meccanico e madre casalinga, ma anche la sorella parrucchiera) sono fissi lì come montagne, gli amici d’infanzia si ritrovano ancora tutti i pomeriggi nel bar dell’adolescenza negli alti e bassi delle loro vite, così come i conoscenti sono ancorati nelle loro abitudini. L’unico che sembra essere cambiato radicalmente è proprio Gabriele: non si ritrova più in quel mondo di “semplici disgraziati”, abituato com’è alla Milano bene, dove si parla italiano (e non romanesco) e dove si mangiano proteine, senza abbuffarsi.
Ma questa è solo la corazza del libro: la trama è semplice e lineare, solo una scusa per mostrare che in realtà non solo il protagonista, ma tutto, davvero tutto, è cambiato pur restando uguale e i messaggi tra le righe arrivano forti e chiari.
Pregiudizi e bugie: c’è differenza?
Durante la lettura del libro si passeggia lungo via Lemonia: «da una parte, come soldati schierati, i palazzi, dall’altra il Parco degli acquedotti, un prato che sembra infinito, attraversato dai grandi acquedotti che dall’antica Roma a tutt’oggi forniscono acqua alla Capitale». Proprio i resti dei sei acquedotti romani ancora in piedi segnano le tappe della storia e i loro nomi sono i titoli dei capitoli. Non a caso, si parte dall’Acquedotto Anio Vetus, il secondo più antico, per poi proseguire e concludere con il Novus. E il cammino del Gabriele adulto appunto ripercorre la sua vita da bambino e da ragazzo nel quartiere trasformato dallo scorrere del tempo: le strade che non sono più affollate di persone come una volta, via Tuscolana tappezzata di negozi chiusi, sor Antonio che sta per lasciare il bar di una vita ai cinesi.
Il tempo si è preso la vita di qualcuno o ha modificato irrimediabilmente i destini. Come quello del protagonista che, dopo anni di gavetta e il sudato traguardo – sempre credendo nel suo sogno di disegnare –, si rende conto come il pensiero fisso che rimane nella testa della gente non sia la fatica o il merito, ma che il successo sia arrivato grazie a una relazione con il padrone. Pregiudizi che lo marchiano a fuoco anche tra gli amici che non vedeva da otto anni. Una falsa voce e mulini a vento, contro cui deve continuare a combattere: «La vita funziona così. Si sente sprofondare. Ci sarà sempre qualcuno che sulla base di quella foto potrà maledire la vita e tutti quelli come lui, quelli che hanno accettato qualsiasi compromesso pur di arrivare».
Una derisione che non fa parte solo di Roma, ma anche di Milano stessa. Un dolore quello di essere arrivati al successo ma senza la soddisfazione di essere riconosciuti per merito, che lo allontana sempre di più dal suo essere più genuino e spensierato. Gabriele si vergogna del mondo in cui è nato e quindi mente: bugie continue alla sua ragazza milanese, così come alla sua famiglia romana. Bugie che lo tengono per il collo e lo accomunano a tutti quelli che preferiscono sostenere il pregiudizio, secondo cui l’importante è arrivare, non importa il come, perché i soldi fanno la differenza e rendono felici.
«È vero che senza soldi se crepa. Che se c'hai un problema e non ce l'hai, quel problema se centuplica. Senza soldi se impazzisce. E su questo non se discute. Ma so' maledetti. Non so bene come dire... non funzionano anche al contrario, almeno non sempre, quando ce l'hai, quando ce n'hai tanti, t'accorgi che alla fine sei sempre tu, vojo di', i soldi non te danno quello che promettono, se non sei felice, in pace, queste cose qui non se comprano.» La distanza che si apre fra Gabriele e gli altri è siderale, lo guardano come un alieno. […]
«Gabrie', non scherzamo, i sordi so tutto, risolvono tutto, salute, bellezza, davanti alla morte nun ce so' ricchi e poveri, certo, ma bisogna vede' come c'arrivi...» È Vanessa la prima a rispondergli.
«I sordi te parano er culo, pure rispetto alla morte, senza sordi te fanno crepa' dentro 'n ospedale, come 'na bestia.» Le va dietro Francesco, con i suoi occhi che da vuoti si sono fatti spiritati.
Umanità: sentirsi se stessi finalmente
Se stessi lo si può essere soltanto dicendo la verità. Ma la verità quando la si rifugge fa ancora più male del solito. Mencarelli, in questo volume, non solo ha voluto richiamare quella nostalgia primigenia di casa – oggettivizzata in numerosi ricordi degli anni ’80 –, ma l’ha anche resa fisica, quasi umana. Una carezza in uno spaccato di vita centenario.
In un’Italia divisa tra ricchi e poveri, tra un’elite spesso di sinistra e un popolo di destra, anche incattivito con gli stranieri – dice l’amico Cristiano in un momento di rabbia: «lo invece vojo esse cattivo, perché a me, a mi' padre e a mi' madre, ai mi' fratelli, nessuno c'ha mai difeso, nessuno. Vojo esse l'esatto contrario de quello che siete voi. Voi siete de sinistra? Allora io so' de destra. Sì. Anzi. Te dico de più. So' fascista. Tanto per quelli come te resterò sempre brutto, sporco e cattivo. Allora er cattivo lo faccio veramente» –, brilla un’umanità antica, dimenticata: quella della fratellanza, dell’amicizia che rimane tale a prescindere dalle divergenze di pensiero politiche e non. Un’umanità che cerca di resistere nonostante non si vada fieri di un lavoro umile, ma lo si porta a termine ogni giorno con dignità. La forza di andare avanti anche quando c’è stato un fallimento, un divorzio, o quando la malattia è l’ultima voce.
Gabriele con nessuno riesce a sentirsi se stesso e a dire davvero quello che pensa, tranne che con il personaggio che sembra l’opposto e il più lontano da lui. Perché non c’è umanità più vera di quando si ammettono le debolezze della propria vita di fronte all’altro e le si accetta come una benedizione.
Un fuoco nella notte
Un libro di scintille e buio. È la cattiveria delle persone, non tanto quella della vita, a inficiare nel benessere di ogni essere umano. Figlio di questa mentalità sociale, Gabriele da vittima sacrificale diventa carnefice pur con qualche sussulto. Sa di essere un codardo che giudica e che definisce gli altri disgraziati, quando disgraziato lo è lui stesso. Lui che cerca fino in fondo di rinnegarsi e di accantonare quel benessere e quel calore che sente stando a contatto con gli amici di infanzia. Quella sensazione di sentirsi finalmente a casa, di ritrovare una madre che si prende cura di lui ma che non ha mai accettato di averlo lasciato andare, un padre idolo dimenticato di una vita che non c’è più.
Pur attraversando corridoi di luci e ombre, la frattura ormai c’è e non la si può saldare. Una frattura che guarda con nostalgia al passato e che non vede felicità nel presente.
Onorare i ricordi sino a farne un credo. Perché? A quale fine? Non si può vivere con il capo rivolto all'indietro. Il passato, se diventa una zavorra, dev'essere mollato. Certo, non sta dicendo di cancellarlo, non lo vorrebbe nemmeno se fosse possibile, e non lo è, ed è giusto tornarci, ogni tanto, con la mente e il cuore.
Ma non si può trasformare il presente in accessorio, secondario, minore, rispetto alla devozione per quello che è stato. E poi ricordare si paga in nostalgia. E lui, da quando si è fermato a casa, ha speso un patrimonio.
Passato e presente dovrebbero essere in continuità, invece in questo libro la frattura tra i due è dolorosissima. Eppure l’accettazione del presente non dovrebbe comportare la chiusura con ciò che fu, perché la vita è fatta di commistioni e compromessi: da millenni i nuclei familiari si sfaldano e si riuniscono in nuovi, così si lasciano i genitori e l’infanzia per seguire le proprie inclinazioni e farsi un’altra vita. L’incapacità del protagonista di unire la vecchia vita con la nuova è il sintomo di un malanno che Mencarelli mostra con delicata lucidità. I dialoghi tra i personaggi e il flusso di coscienza del protagonista guidano il lettore in una contemporaneità italiana ma anche internazionale, nel labirinto delle sue debolezze travestite da lupi supponenti e arroganti. E li porta là dove sono tutt’altro che morte le differenze di classe sociale e dove l’apparenza sembra vincere sempre, seppur con l’inganno, e strazia le persone. Le frammenta e le indebolisce.
Un baratro c’è dentro ogni individuo, un abisso primigenio che una volta scoperto non fa che inasprirsi. E Gabriele è archetipo di tutti coloro che non hanno ancora trovato la risposta, né l’equilibrio (tra passato e presente o tra corpo e anima). La sua vergogna non è altro che il risultato di un meccanismo sociale che l’ha macchiato. Ma è anche sintomo di una debolezza intima, nata e nascosta forse proprio dove tutto è cominciato, nel fuoco degli affetti veri, là dove brucia l’origine.
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