Analisi dell’opera di
Francesca Delvecchio
Donatella Di Pietrantonio, Borgo sud, Einaudi 2020
Borgo sud è un libro di incrinature. Un ritmo narrativo calibrato, un’architettura storica definita e un lessico che si spacca tra l’immediatezza del parlato e una ricercatezza quasi poetica. Le descrizioni sono un incastro di occhi vivi che vedono le cose per la prima volta e visioni perpetue, di quelle da sempre esistite, ma finalmente riviste e riscritte: come se nessuno le avesse più nominate da ere. I personaggi sono venti in transito, scolpiti tra l’incudine dell’amore e il martello del risveglio. Viaggiano in una Pescara salata di mare, dove le loro storie nascono dagli scontri tra passato e presente e dalle loro ferite.
Dove corre il vento
La protagonista – che altri non è se non l’Arminuta del libro che precede Borgo sud – cerca di dare ordine alla sua vita da docente e ricercatrice in Francia, ma anche di trattenere gli impeti degli altri che girano attorno al suo emisfero, lo scompigliano ancora e ancora, senza tregua, ma soprattutto la fanno tornare sempre indietro, nella città dove è nata e cresciuta.
Adriana è la prima vera corrente. La sorella minore un po’ scapestrata che fugge a casa della maggiore col piccolo Vincenzo in braccio, figlio di un amore appassionato ma feroce con Rafael. Adriana – che l’aveva accolta nella casa della famiglia natale e addestrata a una vita di rinunce e povertà nel primo libro – è a tratti rude e perspicace, la vita le ha dato la sveglia. “Adriana è sempre stata così, cambia umore da un minuto all’altro, con leggerezza”.
Piero, l’ex marito, è la tempesta perfetta che scardina la vita da ragazza della protagonista che racconta tutto in prima persona. Il primo amore, puro poi disilluso. Sembra perfetto, ma si rivela distruttivo. I genitori – quelli che l’avevano lasciata in adozione appena nata – paiono sempre fermi nelle loro posizioni, in quella casa in campagna dove ci si spacca la schiena sotto il sole per avere un piatto da mangiare. Eppure anche la madre lascia il suo sospiro e la sua morte diventa il primo vero punto di vicinanza con una figlia sempre difficilmente riconosciuta.
Ma c’è il vento stesso, quello della spiaggia, quello di una Pescara dove il quartiere dei marinai – Borgo sud – sembra un mondo a parte. Un quartiere di casette arroccate e di barche appese al molo, dove i vicini di casa si fanno famiglia e il mare abbraccia come un padre severo. Borgo sud è un libro di aria, che viaggia.
«Quando Adriana si è rifugiata da me in via Zara con lui piccolo e una sacca, portava così poco. Alcuni pannolini, un succhiotto e un elefante morbido aveva preso, nella fretta di scappare. Ho cominciato allora a comprargli cibo e indumenti. Quel primo giorno li ho lasciati in casa, sorella e nipote, e sono uscita con Piero. Appena fuori ci ha investiti il vento, si era levato a muovere l'afa che ristagnava sulla città da giorni. La sabbia volava ovunque, dal vicino arenile. Un breve tratto insieme, fino al suo studio, e ci siamo separati. […] Sono rincasata dalle compere stufa del vento, granelli di sabbia mi scricchiolavano tra i denti. La porta della stanza degli ospiti era solo accostata, sentivo i vocalizzi di Vincenzo, mia sorella che gli parlava dolce. Era seduta sul letto, vicino a lui, ma quando sono entrata la corrente ha fatto sbattere le ante della finestra e lei è saltata su con un grido».
Sorelle: il legame della vita
Sono 160 pagine di una narrazione fitta: al centro di tutto la storia di due sorelle, tra abbandoni e affetti a volte percepiti altre maltrattati. La voce narrante l’abbiamo definita protagonista, ma la vera eroina del libro in fondo è Adriana. Tutto ruota attorno a lei: l’inizio in medias res è mezza facciata, poi la lunga analessi è il racconto della sorella minore che irrompe nella vita della maggiore e come un uragano la scompiglia fino a che si sfibra.
Non la vedevo da più di un anno, mia sorella. Da ragazzine eravamo inseparabili, poi avevamo imparato a perderci. Lei era capace di lasciarmi senza notizie di sé per mesi, ma mai così a lungo. Sembrava ubbidire a un istinto nomade, quando un posto non le conveniva più, lo abbandonava. Nostra madre glielo diceva ogni tanto: tu sei una zingara. Anch'io poi lo sono stata, in un altro modo.
È entrata in fretta, con una spinta del piede all'indietro si è richiusa la porta alle spalle. Così le è caduta una delle ciabatte che calzava ed è rimasta per terra a rovescio. Il bambino le dormiva in braccio, le gambe nude e inerti lungo il corpo magro di Adriana, la testa sotto il suo mento. Era il figlio, e io non sapevo che le era nato.
Un racconto dove la grande rincorre la piccola, dove la maggiore è divisa tra il senso di responsabilità per la minore e la voglia di libertà e di distacco da un mondo famigliare che sente estraneo e lontano. L’amore che la voce narrante ha per Adriana è latente, camuffato dalla necessità di sopravvivere nel proprio egocentrismo e insofferente per un carattere difficile e scostante.
Abbiamo litigato a parole aspre, ma anche come bambine, a spinte e strattoni. Adriana sapeva riportarmi indietro, a tutto quello che avevo voluto lasciare. Collaboravo da poco con Morelli all'università di Chieti, non le avrei permesso di frenare il mio slancio. Genitori e fratelli, il paese sulle colline, erano lontani, nella durezza del dialetto. Occupavano ricordi non proprio felici, e solo un poco il presente. Lei, al contrario, era sempre così viva e pericolosa. Provavo forte il disagio di essere sua sorella.
Eppure è proprio per questa sorella così sregolata che si trova – nascosto in fondo al proprio inconscio – ammirazione, comprensione e forse un po’ di pietà. Una figura che ha la forza di un tifone, ma la delicatezza di un fiore: i petali possono essere strappati con facilità anche se ci sono le spine. E quello della maggiore, oltre la titubanza e la rabbia, è anche un amore pronto a correre.
Così questo è un libro tributo a una delle persone più care e vicine che si possono avere, sempre che la vita nel frattempo non l’abbia portata via (e non serve la morte per farlo).
Il ritorno a casa
«Un grazie particolare alle donne e agli uomini del Borgo Marino di Pescara», scrive Di Pietrantonio in fondo al libro. Questo perché è nelle pagine dedicate al quartiere dei pescatori che si misura la distanza delle scelte fatte dalle due sorelle. Una che ha studiato, si è sposata senza avere figli e alla fine è andata all’estero; l’altra che ha trovato il suo posto in mezzo a gente che vive delle poche cose che ha e della ricchezza del mare, pulendo il pesce pescato in barca e lavorando con fatica. Un posto lontano dalle cerchie universitarie della maggiore, un posto dove le gravidanze sono sempre liete.
La pancia di sei o sette mesi impressionava un po’, nel corpo ancora adolescente di Rosita. Gliel’ho chiesto quanti anni aveva. – Quasi diciannove – ha risposto convinta che non fossero così pochi. Come mia madre alla sua prima gravidanza. L’ho immaginata uguale a Rosita, ancora magra ma già segnata dalla fatica, e tutti quei figli davanti. Volevo scuotere la ragazza, dirle di fermarsi in quella deriva. Ho visto per un attimo il suo futuro: una donna stanca con troppi bambini intorno.
Eppure entrambe le sorelle hanno lasciato la casa dei genitori per trovare il proprio posto nel mondo. Come è naturale che sia: ciascuna a modo proprio. Il distaccamento da quel padre e quella madre così severi, segnati dalla vita e dalla perdita di un figlio (la storia di Vincenzo è racchiusa ne L’Arminuta) emblemi di tempi ormai finiti, è un segno anche dell’allontanarsi da un entroterra antico e segnato, che sembra non poter dare un futuro diverso.
Ma la campagna rimane un simbolo atavico, qualcosa di fisso che sta lì anche quando tutto sembra rompersi. Anche quando la maggiore deve lasciare in fretta e furia la Francia perché è successo qualcosa a casa, è successo qualcosa a qualcuno di importante.
Ho viaggiato tutto il giorno, su diversi treni, ascoltando gli annunci degli altoparlanti prima in francese e poi in italiano. Sfilavano in un lampo i nomi delle stazioni più piccole, dove non ci siamo fermati, alcuni non sono riuscita a leggerli. Di colpo nel pomeriggio il finestrino si è riempito di mare, l'Adriatico con le sue increspature, così vicino alla ferrovia in certi punti. Attraversando le Marche ho riprovato l'illusione ottica dei palazzi inclinati verso la spiaggia, come attratti dall'acqua. Adriana non sa che sono arrivata. Andrò da lei domani, ma non a Borgo Sud.
Qui in albergo mi hanno chiesto se volevo mangiare, ho detto che ero troppo stanca per scendere a cena. L'Abruzzo forte e gentile ha bussato mentre guardavo il telegiornale, mi ha portato per mano di una ragazza bionda biscotti e latte caldo. Non ho aggiunto lo zucchero, era dolce di suo. Il sapore dimenticato del primo nutrimento, l'ho bevuto a piccoli sorsi, non mi aspettavo tutto quel conforto.
“Conforto” è una bellissima parola per descrivere il ritorno a casa. Perché casa è dove si è nati nonostante non si possa rimanere, casa è dove c’è la famiglia, che sia quella vecchia o quella nuova, odiata, sbagliata o amata e ricordata. Il nostos è anche la fine di un viaggio oltre che il ritorno in patria dopo un lungo peregrinare. Ed è proprio il tipico percorso circolare quello che fa la voce narrante: da figlia adottata a figlia riportata dove in principio non l’avevano tenuta, da donna che prende il volo con le sue forze a donna che ritorna per dare forza a chi ora ha bisogno di lei. E tra le ali sempre il vento, quello ricco di sabbia che accarezza Pescara e quello salmastro che profuma di mare a Borgo sud.