di Davide Rondoni
Umberto Fiori, Autoritratto automatico, Garzanti, 2023
La replica, la ripetizione, quel che in poesia si chiama iterazione e che appartiene a tutte le grandi tradizioni verbali, mantra o salmi o canzoni popolari, avvia una possibile forma di ermeneutica del trascendente nell'immanente? Queste e altre considerazioni sorgono in me alla lettura del bizzarro libro di poesie dell'ottimo Umberto Fiori. Nasce il libro da una sua strana "mania": l'aver raccolto negli anni, più di cinquanta, le fototessere del suo volto. Lo ha fatto scattando in giro per l'Italia, in quelle macchinette che di volta in volta chiama "astronave", "confessionale" o "cabina elettorale".
La sua mania è nata in anni di grande impegno politico ma non, precisa l'autore, come atto del "privato" in opposizione al politico stesso, bensì come bizzarria, come esito di una conversazione tra lui quindicenne (!) e il fratello maggiore su un saggio di P. Bourdieu sulla fotografia e sui suoi usi come arte sociale. Chi come me conosce Fiori da tempo, spero con reciproca stima, sa del suo lavoro con grandi fotografi, come il comune amico Giovanni Chiaramonte. Ma non bastano certo le osservazioni sulla natura estetica neutra dell'operazione, sulla curiosità autobiografica ("nonostante la santità e la maestà del Soggetto collettivo io restavo io") e nemmeno le acute osservazioni sulla sciatteria burocratica e sul valore della smorfia, a giustificare la eccezionale, maniacale raccolta. E il primo a saperlo è il medesimo Fiori che intende questo materiale come materiale di una ricerca, ma di cosa? Si deve alla arguzia tra demoniaco, poetico e editoriale di Antonio Riccardi, l'idea di spingere Fiori a affrontare la questione con la poesia, sua arte primaria dopo i trascorsi di rocker impegnato. E ne è venuto un libro al tempo stesso agile e grave, ironico e fulminante, dove si trova la ben consolidata voce di Fiori ad affrontare una questione (il volto) già ben presente nella sua opera. Solo che questa volta il volto è solo il suo (tranne qualche intromissione di amici e parenti - e le tre bellissime poesie finali per l'Orientalina) e la sua iterazione, la sua ripetizione. Il libro non risponde al perché - se mai fosse possibile - della strana operazione autocollezionista, semmai allarga la domanda, la indaga, la escrucia. E tornano in modo vivido i temi ricorrenti della sua poesia. Quel "presentarsi" di qualcosa, di uno che è "intensamente qualsiasi". Quella obbedienza non cieca ma visionaria - sia che osservi un ruscello, sia che rammemori una "zia" sia che osservi un amico o un'amata - a un "dito".
"...cosa vuole
da me, da te questa musica
che ci sospinge e ci trattiene?
È un bene che ci governa?
È una curva, un numero?
Non lo so dire, ma so
che nella vita sempre a questo dito,
al timbro della tua voce
ho obbedito"
Voce di chi? Dito di chi? Non può che tornare in mente, per quanto deliricizzato e spostato, il dictator dantesco che obbliga il poeta all'ascolto di Amor e lo spinge a scrivere "a quel modo". Segno, tra gli altri, che il timbro originalissimo della poesia di Fiori nasce da un corpo a corpo lungo e fecondo con la tradizione.
Così dalla riflessione in versi su un gesto ripetitivo, serio e giocoso al tempo stesso, la poesia conduce Fiori a interrogarsi senza pudore, come suo solito, senza riparo, sulla propria condizione singolare e però anche collettiva. Su cosa si presenta nel "qualsiasi" del mondo (il "famoso mondo") dove la sua teatralizzazione di se stesso implica la necessaria lettura del teatro universale.
Nella pseudo-conversazione in prosa centrale - aperta dalla geniale citazione da Elio e le Storie tese con cui, se mai Fiori lo dovesse, tra Sant’Agostino, Sereni, Eliot, e il Devoto Oli, mostrare le sue preferenze per il "gioco" - si affrontano vari temi, sfogliando gli album delle foto ripetute. Dalla potenza della moda, al fatto che tali album non vogliono essere un'opera estetica ma una "operazione" e, prendendo le pagine della "Giornata di uno scrutatore" di Calvino, si fissa una ascendenza letteraria, laddove lo scrittore si fermava sulle fototessere delle suore e degli "idioti completi" (espressione che dovrebbe cadere sotto censura oggi, no? ndr) come le uniche dove i soggetti offrivano la faccia "come se non fosse la loro". In quel punto l'autore o meglio il personaggio che chiama "Il Ritratto" dice di ritrovarsi in uno stato tra "beatitudine e idiozia".
In una sorta di svuotamento di possessi e desideri, come dicono i versi con cui si conclude la "conversazione", dove resta solo "la faccia./ Eccola è la vostra".
Allora si ha il sospetto, impronunciato dall'autore, e anche discutibile, che tra volto e quel che Fiori non riesce a chiamare anima si sia arrivati a una coincidenza. O almeno a una unica scena. Del resto, quell' "Ah!" che segna in lui, come dice una poesia, l'accorgersi delle presenze, quella "ahità" nelle cose come la chiamava un monaco orientale, dinanzi a cosa, a che genere di "presentazione" si sente in sé? E dove in sé? A quale livello di corrispondenza? Cosa e chi davvero comunica?