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Arzachena Leporatti, “Anatomia di una convivenza”, Interno Poesia

di Edoardo Sant’Elia

In quanti modi, attraverso quali snodi, da quali punti di vista può essere indagato un corpo? Partendo dalle gambe? “Le mie gambe sono radici domestiche / sono cresciute tra il tappeto e i cuscini / che hai seminato in giro…”. Scrutando gli occhi? “Nei tuoi occhi si consuma una guerra silenziosa / le armi deposte sono di nuovo puntate / ricomincia la danza selvatica e greve…”. Smarrendosi nella selva dei capelli? “Ho deciso che ti conto i capelli / senza errori né approssimazioni / sono così tanti che non ci stanno in due sole mani…”.

   Il corpo, anzi i corpi che di continuo si allacciano e si allontanano, si abbandonano l’un l’altro e si guatano a distanza, sono l’anima e l’ossessione di questo primo volume in versi di Arzachena Leporatti. Di stanza in stanza, è attraverso i loro movimenti, calibrati, millimetrici, o al contrario improvvisi, furiosi, che si dipana una storia mai scontata, in continuo divenire, traboccante in mille rivoli, in tanti diversi sbocchi, per tornare poi puntualmente ad un centro instabile che rappresenta comunque una pausa e un rifugio, un centro da cui ricominciare, il nuovo inizio di un percorso senza certezze, caparbio e consapevole, perché “tutto quello che vola non siamo noi / noi abbiamo radici profonde / che scavano nei soffitti degli altri / noi siamo rami bitorzoluti / con foglie verdi dal bordo seghettato / noi siamo terra scura e ciottoli levigati / noi siamo i bulbi che vengono fuori dalla superficie / protendono in alto verso il cielo che cambia / ma noi no”.

   Una durezza sensibile è il mastice di questi versi, un pessimismo antico e giovane assieme, “a custodia di sogni fragili”, sogni da vivere per intero, da assaporare voluttuosamente ma sempre nella consapevolezza che di sogni si tratta ed il piacere che se ne trae appartiene alla loro natura. Sogni e desideri da coltivare nell’attesa, formulando ipotesi, descrivendo scene mai vissute, creando scenari fantasmatici che rendano ancor più trasparente, ancor più diafana la realtà: “vorrei rimanere quando te ne vai / senza che tu sia consapevole del saluto / della mia presenza / vorrei trattenermi sola come un fantasma / nella casa vuota / respirare il tuo odore che diventa sempre più neutro…”. Altre volte il desiderio è un appello inespresso, nemmeno sussurrato, un miracolo banale e impossibile: “aspettami / te lo chiedo senza parlare / muovo la bocca muta come un pesce nell’oceano / aspettami / ti aggancio negli occhi una speranza / ondeggia come alga / si diffonde come sabbia sul fondo…”. Ma la banalità del miracolo che non avviene può essere anche reversibile: “…la mia stessa voce mi rende sorda / mi frughi dentro ma mi nascondo / mi dici qualcosa ma non sento niente”.

   Nessuna maiuscola, nessuna punteggiatura, solo qualche parentesi e qualche punto interrogativo, si va a capo e si volta pagina rimanendo comunque ancorati ad un ritmo continuo, martellante, tramato di riflessioni, di scatti, di speranze che puntualmente divengono corpo: “di tutte le tue parti / (se dovessi decidere) / salverei la schiena / la taglierei dal resto del corpo / ne farei un fagotto / stretto a me ovunque / pesante e faticoso…”. Ecco: intagliando la superficie scava nel profondo, la Leporatti; rendendo onore ai corpi, alla loro anatomica varietà, alla loro cruda verità, canta l’Anatomia di una convivenza che, in barba alla freddezza chirurgica del titolo, si consegna al reciproco abbandono, alla gioia tattile dell’essere – o del sentirsi – simili.

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