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Arvo Mets, “Poesie”, Robin Edizioni

di Edoardo Sant’Elia

“Entro in Estonia / con circospezione, / come in un mare / da cui ero da molto tempo / lontano. / Oh miracolo! – / le onde mi raccolgono”. Così il poeta ritorna in patria: nei suoi versi.

Nato a Tallin nel 1937, Arvo Mets ha scelto di esprimersi in russo, ha trascorso la sua vita a Mosca, qui si è formato culturalmente, qui ha affinato una voce che è limpida e assieme profonda. Le sue poesie, apparse ora in prima edizione italiana, a cura di Maxim Lezin e Raffaella Vassena, tratteggiano un mondo in chiaroscuro, dai contorni netti perché nette e precise sono le parole che lo raffigurano volta a volta, in componimenti sempre brevi ma non lievi, carichi piuttosto di una tensione puntualmente percepita, captata, sebbene espressa in forma dubitativa. Ammette le proprie inquietudini il poeta, non si tira indietro, non gioca coi suoi lettori, preferisce coinvolgerli in un colloquio confidenziale che si ciba di piccole osservazioni, di riflessioni solo apparentemente dimesse, che investono anche il mestiere: “Com’è dolce / trasformarsi in una piuma… / Diventare leggero, / come un verso non scritto. / Linee chiare, / ornamenti, / macchie. / Quando arriva l’uccello di fuoco, / sto già dormendo”.

La realtà rappresenta una sfida ininterrotta, “Guardo le ragazze. / I nostri sguardi duellano. / Le sconfiggo tutte”, una sfida raccolta senza supponenza ma con la tranquilla spavalderia di chi è sicuro dei propri mezzi perché pago della propria dimensione: “Le persone non hanno nulla da guardare / e guardano avanti – / come verso l’eternità. Volti concentrati, / liberi dalle inezie. / Così ci rappresenteranno / sui mosaici del futuro. / E noi – / scendiamo dalle scale / e diventiamo di nuovo persone”. Persone che fanno la fila per il pane, che sperano di far carriera, che confidano in un futuro migliore, persone raggiunte attraverso un linguaggio semplice, privo di affettazione, che crede nella capacità di comunicare, anzi nell’impossibilità di sottrarsi al contatto con l’altro: “In un mondo diviso, / molte cose / si cercano a vicenda”.

L’importante è cogliere i messaggi, quelli che malgrado tutto pulsano, esistono, sono racchiusi nelle pieghe del presente. Quei messaggi che il poeta intercetta, pur senza menar vanto della propria sensibilità: “Il fremito disperato / delle foglie del pioppo / è l’arpa eolica / delle nostre foreste. // Ma la gente / non la sente”. Richiami duraturi e fuggevoli che invitano a gettare uno sguardo dietro le apparenze, dietro gli eventi, anche i più concreti: “Il peggiore degli assedi / è l’assedio della miseria. / I fili marci / si rompono / come schegge. / E sembra / che il tempo stesso / sia marcito / e stia per rompersi”. L’arte di esprimersi, la poetica finemente cesellata, deve provare a misurarsi con dimensioni ulteriori che resteranno comunque incatturabili: “Dove trovare le parole / per la soavità di un collo / di graziosi riccioli, / per questa vecchia / lampada buffa / o questa scrivania tetra? / Le cose e le persone / fanno le fusa / sottovoce. / Sento, / ma non riesco a trasmettere”.

Non si pensi, tuttavia, ad una rinuncia, per quanto sommessa. Mets non finge di abdicare al proprio ruolo, ne confessa solo i limiti; tracciando confini, stana le ombre, le dichiara, le immette in un circuito dove non diverranno carne ma saranno comunque parte, sia pure invisibile, di un insieme, di una totalità. E mai smette di credere nella magia della scrittura, perché “In sere così buie, / la luce può arrivare / solo dai libri”.

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