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Antonio Riccardi, Tormenti della cattività, Garzanti

di Edoardo Sant’Elia

Questo è un libro che va letto dall’inizio. Che disegna un percorso frastagliato e divagante, sebbene coerente alla fine. Un percorso riassumibile, certo, lo stesso poeta in Falso titolo, antiporta propone un indice che vorrebbe essere introduttivo, che mette in fila i cinque Tormenti della cattività – così il titolo del volume, anch’esso preciso e sfuggente –, però quest’indice più che rivelare assembla, più che chiarire squaderna, con raffinata noncuranza, e va riletto forse dopo aver terminato il volume, dopo aver compiuto il percorso.
Che si offre in più tappe, con varie svolte, incisi, soste: e rivela i suoi piaceri proprio nel cammino, nel movimento che pagina dopo pagina traccia un’identità, fa apparire luoghi, descrive personaggi. La guida è una voce che finge di confessarsi e dà consigli: “Considera cosa vedi e cosa vorresti / misurane la distanza / sulla tua carta millimetrata”, che si schernisce e al contempo ammonisce: “comunque non sarò certo io / a dirti che sempre e per tutti / la vita ha un bordo sottile / né le stelle che vediamo / sono per sempre vive”. Riserbo e abbandono si contendono il campo: “C’è chi fa come fanno i serpenti / e lascia intera la pelle dalla testa / alla coda per tornare a prima / di ogni adulta tribolazione / – mi avevi detto una sera dal cuore / del tuo assedio privato”. Si susseguono microracconti, come quello dei due cacciatori che “Non sanno, non possono sapere /se sarà un giorno fortunato”; si avvicendano figure che rimangono impresse, come quella del padre, nella suggestiva, fantasmatica sezione Ex voto, dove le visioni si accalcano ininterrotte, si fanno largo nella memoria, finendo per occupare una spazio preciso, per divenire scolpite, solide: “Oscuramente qui / in poltrona sul fondo della stanza / siedi come sedevi da vivo // quando non c’era dove andare / né altro che aspettare da lei / il segnale stabilito per la cena”.
Un viaggio nel tempo e nella vita, ambizioso ma con la consapevolezza che “La nostra felicità dipende / da piccoli incidenti senza valore”. Un viaggio dove il passato convive accanto alla contemporaneità e l’avvenire può assumere le forme di un cartone animato: “Nella lontana città dei Jetsons / ecco la vita del mondo che verrà. // Un’estate vertiginosa e senza fine / perduta nel lontano, prossimo futuro // forse l’auspicio di una vita felice / per tutte le famiglie come la nostra”. Ma dove porta questo viaggio? Qual è il senso del cammino? Il fondo filosofico di questo libro si avverte, si percepisce, è un basso continuo che innerva le poesie, che martella, che suscita echi: è il vero filo conduttore del percorso, un filo che si inabissa e riemerge, si tende e si riavvolge attorno ad un nucleo di pensiero dove c’è posto tanto per la saggezza quanto per l’amarezza. Una saggezza shakerata, per così dire, immersa nel flusso della vita e sottoposta ai suoi inevitabili sussulti, agli improvvisi contraccolpi; e un’amarezza composta, che si ritira sul ciglio della rinuncia, che abdica ai propri diritti.
“Vita prodezze e morte”, Vita tempesta e morte”, “Vita doglianza e morte”, “Vita consolazione e morte”, di Antonio Riccardi naturalmente, recitano gli incipit di quattro poesie graficizzate in forma di urna e poste quasi al termine del volume: un semicongedo in forma araldica e ironica assieme, il saluto di un uomo dell’Appennino che ha praticato senza illusioni L’arte della fuga – è il titolo di una stanza – ben sapendo che “Come la trappola, anche la poesia / è un meccanismo fatale”.

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