In vista della pubblicazione di Anila Hanxhari “Tiro a sorte la libertà” edizione Solfanelli pubblichiamo alcuni inediti e la nota di Dr.
Carattere e immaginazione sorgiva
Per la poesia di A.H
“Non tenere il muso al buio
è come il tuono”
Anila Hanxhari è poetessa midollare, si muove come una Marianne Moore in passo albanese, in lingua sonante d’Italia. Non c’è nulla di automatico e nulla di letterario in lei, la violenza ispirante che movimenta a far uscire farfalle e spade dalla bocca e dal cuore deve aver sede in una regione della immaginazione in cui non si accorge nemmeno di immaginare. La frazione di tempo in cui si creano e dissolvono immagini metafore cambi di prospettiva indica che la elaborazione di tale materia e di tali combinazioni stupefacenti avviene a un livello precedente la consapevolezza letteraria. Si tratta di quella regione della vita che è attaccata al suo divenire, al suo farsi. Cosa è la poesia, infatti, se non l’emersione di un lavoro che ci precede, che chiede alla nostra consapevolezza di farsi spazio e non ostruzione a tale potente emersione ?
Anila Hanxhari non è una poetessa complicata. Chi la ritenesse banalmente oscura, non sa nulla della poesia. È veggente. La sua anima, come diceva Rimbaud ( e come sapeva Giovanni della Croce) si è fatta mostruosa – mostruosa rispetto alle anime quiete, belle e fatte, borghesi. Il veggente è un animalemareo nella poesia contemporanea. Si preferisce spesso l’ironico, il cesellatore delle situazioni, il piccolo retore delle emozioni. L’essere veggente richiede una libertà e un sventatezza che è qualità rara nei poeti odiernissimi. Non a caso, capitò come una strana meteora tra i giovani poeti selezionati qualche tempo fa in una antologia Mondadori.
Generalmente si preferiscono onesti lavoratori del testo, mentre qui, in poeti di questo genere l’impressione di assistere all’erompere di una forza ctonia, quasi una vulcanica eruzione, certifica che il lavoro poetico, quello autentico, avviene a un livello profondo, prima molto prima delle parole.
Pochi poeti come Anila Hanxhari mi hanno comunicato l’esistenza e l’operosità di quel che Ungaretti chiamava il “segreto” a cui il poeta accorda – quasi con allegria – il suo dire, che ci si presenta come un ascolto che diviene dizione.
Non si tratta, si badi, di una forma di automatismo. Nessuna buona poesia è scritta in automatico. E qui anche solo la ricorrenza di immagini come i fiori, e la densità di altre – i bambini, la gonna, l’onda- denunciano una virtuosità compositiva che non viene da congegni automatici ma da lungo esercizio di ruminazione. E da dote libera di associazione.
“Ho luoghi nella commozione
sono retrovia di foglie”
La poetessa è creatura della commozione. Ma reinterpreta questa parola troppo spessa confusa con una specie di calda, breve, passeggera emozione. Per la Hanxhari, infatti, la commozione, il cum- movimento del reale è la stoffa dell’universo. È la sua natura, e in essa la poetessa trova luoghi, gorghi e curve. La sua lingua, speziata d’una lieve estraneità dell’italiano a se stesso, trova il modo di darci l’effervescenza della realtà.
Sono già stati chiamati, a numi tutelari della sua apparizione nella poesia italiana, Campana, Carnevali e altri. Qualcuno ha scritto che il poetare di Anila Hanxhari mostrerebbe nell’artista contemporaneo la mancanza di identità unitaria.
La questione tocca problemi che vanno ben oltre la sfera letteraria, essendo il tema della identità e della unità dell’io uno dei grandi territori di ricerca e di discussione odierna ( dalle ricerche in ambito neuroscientifico alle filosofie di autodeterminazione dell’individuo, alle teorie del flusso delle identità). Del resto, era il nostro Leopardi a chiedersi e a chiedere alla luna quasi duecento anni fa: “E io che sono?”. Io penso esattamente il contrario. V’è nella voce di Anila una forza radicale segno di una energia unitiva potentissima. Intendo che la fonte, la forza da cui fluisce a volte con irruenza la voce della poesia della Hanxhari è di una donna, di una persona, che non intende mai eliminare il suo volto, né renderlo generico. C’è, insomma, un carattere suo, un carattere che sta prima dei caratteri con cui è scritta la poesia, a cui la Hanxhari non rinuncia mai. Non provengono da un flusso queste parole, da un io diffuso o confuso in senso panìco con la natura nè tantomeno in senso sociologico con una voce di genere femminile. Qui c’è una donna, questa donna, c’è il suo carattere che non dispare ma anzi nutre l’ascolto e lo stile. Il modo con cui la poesia diviene grido unanime (ancora Ungaretti) non è cessando di essere “vita di un uomo”, ma attingendo al livello più profondo e libero di quella vita particolare. Anche questo strano prodigio che fa convivere carattere particolare e vasta, prodigiosa immaginazione, è uno dei motivi che rende questa poesia riconoscibile e preziosa.
I.
inedite
mi hai fatto esperienza tua a trottola
una virgola continua su un pozzo
sonnambula e fondo
ma la luce dio che arriva al pozzo
viola le ossa le attacca un chiodo
mi hai detto ora ridisegnale
rammenda il midollo
e la testa che esplodi
in miriadi di formiche all’alba sottobosco
hai lasciato briciole e allodole
nascoste in dirupi
hai dato occhi saltimbanco
il bruco negli occhi
che rodesse la luce
la-la-la-la-la-la hanno cantato i pazzi
ci pensi dio quante righe tracciate con occhi
un tavolo su un osteria e un barbone
una costa di madri sul motore
di una nave, respiro di gasolio
e braccia tagliate da forcine onde
da piante carnivore assetate di azoto
non sono morta mentre saltavo in volo
per mancanza di piume
mi volevi viva penetrante grossolana rosa
le ruote delle macchine mi prendessero a schiaffi
un dissesto di tempo sul tuo almanacco
poi mi hai fatto provare gocce di cicuta
mai avrei potuto essere boia di salvezza
tagliare la luce dal pomo di Adamo
la sporgenza arruffata di un figlio
liquida corazza
mi hai fatto amare l’impossibile
il vile, la clausola di un ragno
la tenerezza di un’edera nel costato
la-la-la-la-la-la hanno cantato i pazzi
hai risvolto la mia bocca un ruscello
hai marinato dentro
ho nebulizzato i presagi
trascinato le ruote nella maschera
del fragore dell’uscio
chiedevo alle ginestre i gambi
per appoggiare il centro
rilassare le dita nel grilletto
la-la-la-la-la-la hanno cantato i pazzi
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II.
La natura è scossa di fogliame
è il corpo cieco
cambia come intorno alla stirpe al cecchino
sfila la memoria – gomitolo
come i pennelli in un bicchiere
rilasciano il bouquet
il corpo è natura
ascia sulla fine
tagliato in due dal tramonto
si metta pure
su un ghigno fulmine, una virtù
la brace oppio
ordina al pilota di sganciare la fuga
il grilletto ti deve sorprendere
la vita fa quello che le piace con il grano
e il sudore della piega
giri su te stesso
e i chiodi cresciuti
in accumuli di sedie a dondolo
se capitasse la verità
bambino sculacciato a cinghiate
inchinato sul tavolo
come un tornado
alzi la testa
quando nasce qualcuno
teniamo per noi il furto delle scartoffia, i lustrini,
il midollo osseo, l’urlo dell’acqua
la casa bruciata dalle tempie
tu non hai peso nella faccenda
eppure sei il principio
degli irrigatori a scomparsa
che celano le prove della nascita
non dire nulla della custodia
Mio padre si è presentato al padre all’intervallo
del monologo dell’infioritura
accentuava i ruderi
un gioco di piedi che pigiano l’uva
estrarre dagli acini il mosto
al molo una falce disegnava il ventre della madre
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III.
non griderò come preda, ma come voce rinserrata prima di cadere
udite le voci che cadono sono ferite risanate con l’eco!
Ho luoghi nella commozione
sono retrovie di foglie
dove volano proiettili
il volto dipende dalla fascia dei capelli
le sopracciglia si delineeranno al faro
entreremo di sbieco nella postura
il rene lo lasceremo nelle sedie
la ripetizione delle lune non serve ai sognatori
il tempo di influenzare la resina
lo sgretolarsi della fede
e i piedi saldi in testa come un mulo
ci saranno i bambini appesi all’onda
come ad una gonna
regaleremo ad una madre la vecchiaia precoce
un taccuino
dove appuntare il ventre sconfitto da un’onda
e “c’era una volta” sarà presa a pietrate
farà un taglio
e gli scricchiolii per sapere delle foglie
ci sono morti che si ritirano appena morti
diventano ossa trattate ad acido
nido d’api
ci sono morti che se si spengono le luci
rovesciano briciole dalle tovaglie
IV
il perdono è del bosco che perde i vinti
imparo il perdono dal peso dei confini
55 chili con il vuoto, con le anatre
gli occhi all’artico, metà tronco, metà ghiaccio
non dire niente presa d’assalto
al di sotto le pareti del crepaccio
un mancamento dei segni intagliati
qui alla tara della mia carne
con la stagione resta il furto degli angeli
la paura di versare dal boccale il cristallo
la tua commozione mi commuove
non tenere il muso al buio
è come il tuono
non si torna indietro
quando si oltrepassa il limite del dolore
è vetro trasparente da guardare traverso
il cadavere che gioca a palla
con il muro di cinta
e non temi più neanche la gioia
stringere la fune tirare su l’uomo
tra le braccia sei in anticipo eppure
quanto basta per il perdono
l’innocenza quanto l’amore
come i fiori recisi
non hanno la stessa comprensione
dei gambi rivoltati su se stessi nel giardino
non hanno avuto il tempo di comprendere il salto
dalle mani al terriccio e poi fuori nell’aria
(Anila Hanxhari)
Biografia:
Anila Hanxhari è nata a Durazzo nel 1974 e vive a Lanciano. È poetessa, pittrice, narratrice, traduttrice e presidente dell’associazione culturale “Italfida”, con cui ha ideato e curato diverse manifestazioni culturali e convegni internazionali. Attualmente è dirigente responsabile del settore cultura Ascom Abruzzo, per cui cura il Format di “Poesia e Impresa”. Ha pubblicato le raccolte poetiche Io tu e l’Anima (Ianieri 1997), Assopita erba dell’est (Noubs 2002), Cicatrici d’acqua (Noubs 2007. Prefazione di Giuseppe Conte), Brindisi degli angeli (La Vita Felice 2012. Prefazione di Maurizio Cucchi). È presente, fra le altre, nelle antologie Nuovissima poesia italiana (Oscar Mondadori 2005, a cura di Antonio Riccardi e Maurizio Cucchi), La parola che ricostruisce. Poeti italiani per l’Aquila (Tracce 2009), a altro ancora e sue poesie sono state pubblicate su «Specchio» de La Stampa e numerose altre riviste
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