di Daniele Giustolisi
Angelo Fiore, Domanda di prestito, Gattogrigio Editore 2021
A P. tutto avviene e si chiarisce; qui, finalmente l’uomo può agire e manifestarsi.
A. Fiore, Domanda di prestito
L’inatteso arrivo di uno strano segretario comunale nella cinica e innominabile comunità di P., dà avvio al romanzo di Angelo Fiore Domanda di prestito, pubblicato originariamente nel 1976 per la Vallecchi di Firenze (con lo sponsor di Mario Luzi e Giacinto Spagnoletti) e oggi riproposto da Gattogrigio di Brescia.
La notizia di una riedizione, a volte, porta con sé il controcanto di un insperato miracolo capace di far riaffiorare voci perdute o dimenticate della nostra letteratura. Ed è proprio il caso dello scrittore palermitano, uno per cui Romano Bilenchi ebbe a dire che in confronto Moravia era “il” niente. Un articolo determinativo terribile e definitivo ma non in grado di salvare l’opera di Fiore agli occhi del grande pubblico. Un’opera anti-siciliana capace di contravvenire clamorosamente ai dettami della coeva letteratura isolana, per gran parte tutta (anti)mafia, storia e scetticismo, mettendo invece al centro della pagina una radicale esplorazione del mistero umano.
Nell’uomo intuiva un principio vitale, un’esperienza in atto; ma più si studiava di cogliere la sostanza di quel principio, più il principio gli sfuggiva.
A. Fiore, Il problema di Rodolfo Traina
Con i suoi romanzi, largamente incentrati sulla paludosa quotidianità impiegatizia (Il supplente, Il lavoratore, L’incarico), Angelo Fiore ci dimostra, al pari di un Tozzi, Svevo o Pessoa, che può esserci anche un altro modo di fare letteratura. Alla trama e all’intreccio, può succedere che la scrittura deflagri sulla vita a tal punto da coincidervi, così come Fiore – insoddisfatto insegnante di inglese, alla ricerca di una vaga affermazione letteraria – coincide in fondo con i mediocri personaggi delle sue pagine. Non ha trame né intrecci l’esistenza infatti, almeno non in quel modo ponderato e spesso ideologico che può orientare gran parte di ciò che si scrive. E così sono i romanzi di Fiore, dove l’intimo inferno quotidiano, non per forza dotato di apparenza e clamore, può coabitare tramite sincopi, sussulti e spasmi con indicibili slanci di umanità.
Ho pensato la miseria dell’uomo e della carne e ne ho sofferto; ma da questa meditazione e da questo disprezzo è nata una nuova onestà e una più grande forza potenziale d’amore.
A. Fiore, Diari
Con i piccoli sotterfugi, le fughe ricercate, le ossessioni e persino le oscenità dei suoi personaggi, Fiore non tenta di creare interessanti individualità ma di definire delle credibili umanità, laddove la credibilità non risponde tanto a un dettato moralistico ma alla capacità che l’umano ha di venir fuori, di ex-sistere, anche (e soprattutto) nelle sue silenziose angosce, frustrazioni e nelle menzogne che altro non sono il completamento di una verità mancata o desiderata.
Ma l’uomo è sincero? Gli si può credere?” “Dobbiamo credergli sempre”.
A. Fiore, Le voci
“Bisogna credere all’uomo, sempre” ci dice Fiore, e per questo non c’è giudizio nelle sue opere, solo un grande sguardo che non tenta di capire la vita ma di comprenderla. Ed è sforzo durissimo, un’intima e immane fatica che può esigere anche il prezzo di un silenzioso e cupo isolamento finale, come quello che lo scrittore vivrà negli ultimi anni della sua vicenda, vagabondando tra una stanza e l’altra di pensioni, hotel e ospizi palermitani. È ciò che ci restituiscono, con parole di nuda intimità, i diari dello scrittore siciliano, ricomposti dal curatore testamentario Sergio Collura. C’è una forza incandescente, fatta di pulsioni, nevrosi, attese e desideri infranti, che attraversa la vita ed esaspera chi l’assume (o vorrebbe assumerla) a proprio destino biografico; una spinta non addomesticabile che può richiedere, come contropartita per il suo inseguimento, la consumazione e lo sfinimento in chi la riconosce, anche in una forma meno vitalistica e più appartata, come nel caso di Angelo Fiore con la sua quasi monastica e discreta separazione ultima dalla mondanità, atto estremo di rivolta nei confronti della ferocia stessa della vita.
La vita ci ha distrutti, mi ha distrutto. Non bisogna aver paura della morte. La vita mi ha distrutto, anche se una parte della divinità è dovuta a me. Ma c’è qualcosa che mi supera ed è la vita stessa.
A. Fiore, Diario.
È questo il cuore dell’insegnamento di Angelo Fiore, e se vogliamo l’inaspettata pars construens del suo grigio e asfittico universo letterario: non solo la vita biologica, ma in fondo anche quegli aspetti che la compongono, umanizzandola, come le ansie, le sofferenze, le angosce, i desideri, sono destinati a superare l’uomo, proprio in quanto forze eruttive, incontrollabili. C’è un eccesso di potenza di questa vita che l’uomo non può contenere, arginare, soddisfare. Eppure, sembra dirci Fiore, due sono le strade: o rimuovere dal proprio cammino esistenziale questa spinta, oppure riconoscerla, interrogarla, viverla non come materia astratta, intellettuale, ma come orizzonte in cui cogliere propriamente l’umano dell’uomo. Ma non solo, Fiore dice di più. Questa forza porta con sé una dimensione sacra, cioè (come da etimo) separata dal resto. Sacro è tutto ciò che occupa i solchi più intimi e sconosciuti dell’animo umano concedendogli sussulto, vibrazione, luminosa commozione. È tutto ciò che, con altre parole, potremmo ricondurre all’irrazionale, all’incomprensibile, all’inspiegabile, come l’amore, la gioia, il dolore, Dio. Ne scrive Fiore, con parole di delicata e straziante sensibilità, a proposito di un gattino morente:
Il gattino è simbolo della nostra sorte, della mia in particolare [...]. Non c’era nulla da fare; la bestiola soffriva, tutta raccolta in sé; ogni tanto si moveva, e alzava il muso, gemendo, come in una rivolta a quel dolore. Era diventata un essere sacro, sconosciuto, più alto di ogni sforzo di conoscenza.
A. Fiore, Diario
“Deus sive vita” dirà Attilio Forra, protagonista de Il supplente, riscrivendo a suo modo il paradigma spinoziano del “Deus sive natura”. Se Dio è a fondamento della natura – questo è l’impianto teologico di Fiore – spetta invece all’uomo riconoscere e tirare fuori la divinità che attraversa le cose della vita. Per Fiore infatti la trascendenza non è qualcosa di esterno al mondo ma è una forza interna al mondo. E cos’è questa trascendenza? Dov’è?
Come nel caso del dolore della gattina, essa abita – sembra dire Fiore – in tutto ciò che sfugge allo sforzo umano del sapere. È qui che risiede forse la grandezza e l’attualità di Angelo Fiore: in un tempo come il nostro che esige la tassonomizzazione del tutto, che esige solo risposte razionali, chiare e performanti anche sui sentimenti, sul disagio, sulle sofferenze del corpo e dell’animo, e che priva persino gli ultimi della dignità di indossare un pantalone strappato poiché eleva quest’ultimo ad abbigliamento di moda; di fronte a tutto questo, Angelo Fiore, tramite la sua delicata voce e quella estrema dei suoi personaggi falliti, cioè di chi non è riuscito (o non è voluto riuscire) negli scopi, negli intenti, negli atti della vita, rimette al centro della pagina radicali e sofferte domande di senso, alla ricerca di più profondi e credibili orientamenti.
Non c’era pentimento o dolore; come, del resto, nessun piacere, o intenzione di volerlo sentire.
“Non percepisco né sento, ma vivo”. Ma c’era il senso della fine: la fine della sua interiorità, della sua forza morale. “Fine; e insieme principio. Il principio di un nuovo modo di essere; di cui non mi avvedrò: farò gli atti relativi senz’averne coscienza”.
Per conto di chi vivrò? Che significherà la mia esistenza?
[Angelo Fiore, Il lavoratore]
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Non conoscevo, purtroppo,
Angelo Fiore. Leggendo la recensione di Giustolisi mi è venuto il desiderio di leggerlo.