di Irene Ester Leo
Poesie di Andrea Galgano, da Non vogliono morire questi canneti, CAPIRE edizioni, 2019
Oltre il fiume
Le colonne porpora
piegate al cielo tiepido
stingono la ghiaia
è vermiglia la linea incisa
dei gabbiani
che strema il tramonto
spoglio sulle correnti
ricordi quando digradava
la nostra mano
non vogliono morire questi canneti
scaldati dai lidi
sul corpo delle pietraie
le nostre isole
sono soffitti
i capanni stipati
come occhi.
C’è una bellissima espressione di Pier Paolo Pasolini che nel tempo ho acquisito, ho lasciato entrasse nelle mie corde, come una chiarificazione luminosa del senso del vivere, e fa così:
La coscienza sta nella nostalgia
Chi non si è perso non ne possiede.
La trovo calzante per un poeta, Andrea Galgano, che con l’ultima sua raccolta poetica per Capire Edizioni - Non vogliono morire questi canneti, ci invita a prendere parte ad un percorso prossimo alla bellezza e lo fa chiedendoci implicitamente di lasciar stare la bussola, ma di navigare a vista. Il senso della vista, sembra appunto privilegiato, atto a raccogliere e proiettare l’ispirazione assunta dal mondo circostante, quale unica strada. Davide Rondoni, che cura la collana poetica di cui questo libro è parte, ha definito Galgano: “uno scultore e cesellatore delle parole, ama sentirne la forza fisica, potente o delicatissima, che evoca la viva presenza del vivente, i suoi entusiasmi, i suoi abbandoni”. La parola è corposa di sinestesia e si carica di geografie del cuore che tracciano una traiettoria di viaggio, ha valore di concretezza toccando ora il feriale ora l’assoluto con una naturalezza che è propria del viandante di Nietzsche, mentre tra albe di luce e notti oscure arriva ad incontrare la più grande sfida tra le sfide: la conoscenza dentro e oltre se stessi. Perché se è vero che il valore di questa scrittura ha sentore di impressionismo pittorico e “coglie’’ le variazioni della luce sulle cose intorno, poi è anche vero che la lente usata è intima e dolce, accomodante a tratti e avvolge il lettore, lo invita ad essere presente in ogni dettaglio minimo così come in ogni visione massima. Vi trovo carattere di universalità in certe immagini che si aprono e salgono in una musica costante con lo stile di chi ha alle spalle un saldo studio e non improvvisa la sua presenza in questa realtà letteraria, ma scava a fondo per affermare la sua concezione, per lasciare la sua impronta. E tra i fonemi in boccio, giunge l’eco di un’atipica nostalgia che profuma ora di acqua, ora di terra ma sfinisce nell’essere umano, in mille voci e volti che l’autore sente così vicini e cari per sensibilità ed estro accomunante. La consuetudine è per un verso ricercato e limpido, non guidato da una “fame” che apre la parola, ma più da un traboccare di moltitudine e illimitato amore che muove i passi di questo autore in questo neo sistema planetario, di cui Andrea Galgano possiede l’antica chiave e il lettore l’odierna serratura.
Se cercate una poesia del “Sud”, quale definizione atta ad incasellare la connotazione personale del poeta, nato e cresciuto a Potenza, vi stupirete di un afflato diverso, c’è la terra sì, i paesaggi belli e densi, passaggi che restituiscono allo sguardo radici, ma puntate verso il cielo. E se in questo contesto poetico se c’è un sud è materia calda dell’anima, metafora di tutto ciò che il sole rende vivo e naturale.
Citando Paul Celan: “Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano” e ancora “Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all'erta. Doni che implicano destino”.
La raccolta poetica di Andrea Galgano ha il dono di farsi esperienza del lettore, priva di ogni staticità o di un’ossatura rigida e lascia un passo dietro il suo autore, come è giusto che sia, quale mezzo di una meraviglia di cui si fa portavoce e in cui nulla vuol andar via per essere dimenticato, tutto resta, mentre la vita brilla e sorge ancora dal balcone del corpo.
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