Andrea Galgano, Non vogliono morire questi canneti

di Anita Piscazzi

 

Andrea Galgano, Non vogliono morire questi canneti (CAPIRE edizioni, Forlì 2019, pp. 90)

Viene da lontano la voce di questo vento che smuove il “mosto delle stelle” e respira paesi di una bellezza lunare. È il vento che lavora la notte sulla darsena, si alza a mezz’aria conosce il pane negli occhi e le oscurità delle spighe di una terra ancestrale, la Lucania negata, strappata al petto delle madri nere pronte ad agitare fazzoletti sugli approdi distanti di un’eco poetica che un tempo corrose il tormento dell’alma di Gesualdo e di Isabella Morra, di Rocco Scotellaro e della più infelice Assunta Finiguerra che non vogliono morire e che in questa terra di maledetto incanto sono rimasti, proprio come in “Non vogliono morire questi canneti” ultima fatica poetica per i tipi CAPIRE edizioni di Forlì di Andrea Galgano, poeta, scrittore e critico letterario che in questa terra ci è nato e traccia “una viandanza tra voci e luoghi che costituiscono non solo un elemento biografico, o un accumulo culturale, ma una necessità del suo poetare” per dirla con le parole della postfazione di Davide Rondoni che della collana “CartaCanta” ne è il curatore.

Camminando lungo i canneti sempiterni incontriamo la vis del poeta che come un pastore errante: “ha chinato le stelle / svuotando il cielo deserto / come un cancello di aria fredda / la luce nera delle bande / ha voltato darsene di acciaio / in un esilio di sabbie mobili / […] le prigioni delle fughe d’inverno / aspettano le vele del fiume d’ira”.

Lungo un viaggio notturno fatto di voli e di bonacce, di algoritmi ed eterocromie, si respira scorrendo una costellazione felliniana di voci, di paesaggi, di amici, di figure e di personaggi famosi che il poeta ha conosciuto o ha stimato come Pino Mango, cantore della Monnalisa che ha parlato “di terre di aquiloni / e dicembre di aranci / che smagliano il bilico / dell’anima”, di Luigi Giussani che ha indossato “la tonaca tenebra bianca dei cigni”, di Massimo Troisi e del suo “amore che si sbaglia: / e poi ritorna, / portone nudo / negli assoli insonni” o “il melograno delle uve / assottiglia / il rifugio ocra degli archi / […] la gemma vinaccia / di veli e venti” da un dipinto dell’amica Irene Battaglini.

Ma come un flashback si avverte improvviso il richiamo alla terra di sangue, dura, incrostata “dove le pietre dissolvono / gli occhi / e fondono gli apici di luce / i tuoi tornanti / frecciano il cuoio delle alture / e le coste / sono oscurate rocce, / insenature / infiltrate da ogni vento” che si trasforma in una donna ospite che “chiede al Dio delle estati / l’anello travolto dal cobalto, / il destino del vestito cupro / che pronuncia la strelitzia del cielo” o l’ossessione della domanda sospesa di quella mitezza antica senza fiato: “qual è la mia mano, Signore / che risolleva Maddalena / o quella che Ti colpisce sul legno scuro? […] l’alba di Pasqua / dentro il Tuo cuore / è Tempo”.

Quella di Galgano è una ricerca che non salva è una corsa “affamata di deserti”, un assedio di cicatrici che fa cadere anche la grazia ma che spalanca quell’unica porta stretta possibile a noi, “gazze sull’erba” che possiamo nutrirci solo di racconti azzurri e di spiragli d’ambra. Del resto il poeta, visionario di tutti i tempi ha solo una cosa da dire: “chiedi di me / e mi porto gli occhi al viso / lo stupore della ghiaia ultima / sugli alvei / i capelli alla nuca / spiegati come vele / al lascito del tuo vento”.

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