Dove sbaglia Aldo Nove (e dove no) su Franco Arminio. Notarella a margine di una querelle

di Davide Rondoni

Non conosco Nove, conosco Franco. Non sono mai preoccupato della presunta "carriera" dei poeti. Perché so che è ambigua, fallace e illusoria come tutte le carriere. Sono contento se stanno bene e se scrivono le poesie che pare a loro. E se le offrono al mondo. Ho detto privatamente varie volte a Franco di stare attento a non diventare un poeta alla stregua dei troppi che vanno a capo a cavolo come lamenta Nove. E non mi ha mai per questo offeso o privato del saluto. Ritengo che in varie occasioni e libri mostri di esser un buon poeta. E credo lo stesso valga per Nove. E so che non è così facile. Il bar della poesia è sempre aperto e non è di nessuno. Abbiamo già avuto quelli che dicevano: o si scrive come noi o non si è poeti. In genere sono letterati biliosi, tristi e accademici, ignoranti di cosa sia la libertà e godono di poderosi studi anatomici sulla loro opera ma dicono poco. Eppure volevano essere i legislatori della poesia e i padroni del bar, e dire chi doveva stare fuori. Lo dicevano anche di Luzi e di Pasolini. E sbagliavano. Occorre una strana generosità - che non è lasciar correre - in poesia, e non credere di essere padroni o tenutari di un recinto.

Come nel campo del vino c'è l'albana e il barbera, così nell'arte della poesia occorre distinguere, ma non per questo "scomunicare". I dibattiti social fomentano considerazioni spesso superficiali, attacchi banali e senza veri argomenti (ne so qualcosa) ma pensare di fare critica letteraria via social è come pensare di andare in montagna in ciabatte.
La produzione di Arminio è certo bulimica, ansiosa, ma non bara su questi elementi, anzi per così dire li inscena, ne fa medesimo materiale poetico. Basta leggere alcuni suoi testi per accorgersi dell'ansia che li traversa e determina. E non è questa nostra "l'età dell'ansia", come titolò la sua forte opera W.H. Auden scritta nel '48?
Forse in quell'opera si trovano le radici e i motivi (la disillusione ideologica rispetto a promesse di paradiso in terra, la guerra, ecc.) di una certa udienza diffusa dei testi di Franco. Molti che si dedicavano al sol dell'avvenire con passione ora con passione malinconica si dedicano ad alberi, paesini o slow food. Stare a fare classifiche o dare patenti circa i poeti credo sia meno interessante del confrontarsi con i motivi e le forme dell'opera, e con i motivi della loro udienza.

Nove accusa il pur da lui un tempo lodato Franco di sciatteria poetica rispetto a una scuola secondo novecentesca che troverebbe ora in alcuni nomi dei degni eredi. E ne indica alcuni, sui quali tralascio qui considerazioni critiche.
Ok, è comprensibile che certe novità poetiche si connotino come antiaccademiche e antitradizionali (avvenne anche per i cannibali di Nove e, se vogliamo precedenti, illustri avvenne per Ungaretti ma anche per lo stesso Montale) e questo avviene anche perché la cappa scolastica e accademica ha in buona parte nuociuto a una viva esperienza della poesia nel nostro paese. Mi piacerebbe che gli scrittori e i poeti, più che attaccare in modo banale altri poeti e misurarsi i like, si occupassero di questo problema del fallimento della tradizione poetica scolastica. Io lo faccio da tempo e sarebbe interessante lavorarci su, non solo con lamenti bensì con idee metodologiche nuove, come ho provato e provo a fare, prendendo sul serio il difficile (e da riformare) lavoro da insegnante. Ovviamente, una certa diseducazione del gusto a causa del fallimento educativo genera una confusione tra tavernello e barbera in chi tale gusto non ha avuto educato. Ma accusare tale scambio richiederebbe per onestà intellettuale di vederne le cause, e invece di attaccare i poeti semmai attaccare la scuola.

Sta di fatto che la semplice contesa in eredi di tradizione e stili di rottura in favore di un dettato più facile non è soddisfacente ed è un po' comoda per entrambi i discorsi critici. No, occorre guardare più a fondo. Un lessico e un dettato semplice non sono sempre tombe dello stile, e viceversa c'è chi, come diceva il Franco Loi, intorbida le acque di una pozzanghera per sembrar profondo, esibendo gingilli verbali dentro cui suona poca vita e poca conoscenza. E credo che qui sia un elemento da porre in gioco, per riaprire invece che chiudere discussioni con patenti e patentini peraltro poco valevoli su nessun mercato e in nessun tribunale. Davvero esiste la poesia come arte di sola espressione oppure esiste per conoscere? Suggerisco a tal proposito la lettura del bel libretto saggio recente di Gian Mario Villalta ("La poesia, ancora?" Mimesis) già recensito su questa rivista. E se conoscenza è, la poesia lo è in quanto tale o lo sono le poesie, le opere, i testi? La cronaca poetica ansiosa e desiderante di Arminio ha testi che offrono elementi di conoscenza o sono puri momenti espressivi di una personalità che ha connotati di originalità valutabili per qualcuno come deboli e comodi? Io credo che sia sbagliato fare un mucchio di Arminio e targarlo (solo) come tavernello della poesia rispetto ad altri presunti barbera. E lo dico - Franco lo sa - non avendo mai lesinato nella nostra corrispondenza contrastivi a certe scelte o selezioni di testi ecc. E occorre pure separare nella critica alla sua poesia quanto è nei testi e quanto è di eventualmente disturbante nella "costruzione sociologica" o mediatica del personaggio poeta - cosa che peraltro vale per tutti, da D'Annunzio alla Merini (un Arminio ante litteram?) e che spesso non è sola responsabilità individuale del poeta o poetessa medesimi ma anche di giornalisti editori lettrici e lettori dal vacuo entusiasmo ecc.

Ci sono testacoda visionari, ci sono delicatezze verbali, ci sono pastosità sonore i vari testi di Arminio che trovo interessanti. Ci sono tentativi post-ideologici di legare la ferialità al sacro, pur anche attraverso un ansioso e a tratti immediato ricorso all'eros e alle sue descrizioni, che ci dicono qualcosa di non trascurabile sul tempo che viviamo, come già evidenziato da Baumann. C'è una solitudine gigantesca espressa con tocchi gentili, a bordo abisso. E c'è una lingua mai violata, credo più per rispettoso timore da maestro elementare che non per insipienza. Sono poesie apparentemente semplici, certo, a volte buttate lì forse con troppa fretta (la Merini non faceva uguale?) e semilavorate in certi casi o piegate a fini retorici e declamativi. Sono troppe, troppo frequenti? Certo, lo dicono tutti, non mi pare che ripeterlo sia un acquisto critico. Ma qualcosa di tutt’altro che secondario la poesia di Arminio sta dicendo e mettendo a fuoco. E dire che al bar della poesia il suo vino non deve circolare è comodo e sbagliato. Così come credo possa circolare il vino della poesia di Nove. E senza dare etichette ma gustando e discutendo, animatamente pure - cioè con anima, non senza. E ognuno si impegni a offrire il vino migliore che può.

Lascia un commento