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Alberto Bertoni e Rossella Pretto: due libri, due oscurità, due intensità

di Davide Rondoni

Alberto Bertoni, L'isola dei topi, Einaudi 2021
Rossella Pretto, La vita incauta, Editoriale Scientifica 2023

Ecco due oscurità simili, attraversate portandosi addosso la poesia, con intensità e esiti diversi. La raccolta "L'isola dei topi" di Alberto Bertoni e il diario di viaggio di Rossella Pretto, "La vita incauta", hanno continuato in me a guardarsi per settimane, e a stare su comodini vicini, per terra nel mio studio-caos, in viaggio su treni aerei auto. Pur se ricevuti in stagioni diverse dell'anno (quasi due anni fa il primo, pochi mesi il secondo) li ho presi con me insieme e, mentre ho divaricato la lettura, ne commento ora unitariamente alcune delle questioni che pongono a chi, cercando traversamenti e non parcheggi nei libri, par di vederne due, ma con due modi diversi se non opposti.

"L'isola dei topi" è il libro che Alberto Bertoni ha dato per i tipi di Einaudi. Libro di una vita, non solo per gli andirivieni biografici, per gli omaggi familiari – che sono omaggi velati di mestizia – letterari, geografici, e non solo per i riferimenti a elementi e notizie che già erano in gioco in precedenti raccolte. Libro di una vita perché di questa sua vita, quasi da cartografo svagato, flaneur di sé medesimo, ma in realtà attentissimo e divorato io credo da una febbre non letteraria che giustifica, proprio nel momento in cui la rompe, la mesta rassegna dei debiti letterari che fin dal titolo opprime il volume, ma è, si badi, oppressione finalizzata alla creazione di questa precisa pasta poetica. Una febbre che tocca o meglio affiora, quasi freddo riflesso di spavento o di abbagliante buio respinto in remotissime zone di sé, febbre che a mio avviso è la cifra nascosta dello stile, della pasta poetica di Bertoni. Pasta che è autodichiaratamente Montaliana, certo, e dunque Sereniana e finanche Cucchiana con variabile "à la mallarmé" Deangelisiana, secondo quella linea potente di "petrarchismo" che da oltre settant’anni Mondadori e i suoi àuguri – tranne poche folgoranti eccezioni – provano disperatamente a imporre alla poesia italiana come canonica, poesia che invece se ne va, slabbrandosi di baci e dialettismi, di impervie ariose vie fiorentine luziane o campesche o postcampaniane o in larghe volute bertolucciane e precipizi caproneschi e testorici e brividi zanzotteschi o ameliorosseschi nonché segnata di lei, la migliore Giovanna. E dunque la oppressione che fa di tutto isola di topi, compresa in tale visione la letteratura e il sincerissimo sguardo "privo di orizzonte" che ci offre l'autore, è sì oppressione letteraria ma a sua volta oppressa da una desolante pervasiva mancanza di affetto, questa sì tragica, e per ciò stesso al massimo elegiaca, verso cose e persone e luoghi e se stesso. O più che mancanza assoluta, che non si potrebbe dire, quasi di un affetto tardivamente recuperato, oramai spento nel suo fuoco gnoseologico e ridotto, malgré soi, a gentile orpello, elegia, appunto.

Intendo che pochi libri come questo di Alberto sono disvelatamente attuali e disperatamente rappresentativi di un sentire che folgorante Pasolini nel 1973, allorché Bertoni diventava maggiorenne, indicava con tali parole: "Indubbiamente un bambino che nasce oggi si sente meno benedetto". E la benedizione e il suo rovescio la maledizione sono infatti assenti in questo libro o forse a tratti, sì, a sfumature, emerge in quei brividi di febbre, talora vorrebbero emergere, erompere, sovrastare se pur per un attimo solo di benedizione amorosa sperduta verso qualcuno, la donna, una donna, il padre o Modena o una sua via secondaria, o amici perduti o semmai insorgere altrettanto sperduta maledizione verso qualcuno qualcosa fosse pure se stesso. E invece no, il poeta roditore, il poeta diventando topo tra i topi, scegliendo di vivere in tal modo la oscurità di condizioni in cui tutti – tutti! – siamo gettati, rosicchia e rosica, squittisce talvolta, zampetta eliotianamente nella terra desolata. E avviene con grandezza e quasi spreco di pensiero, fin dal testo esibito in copertina che in quel "divorzio" dalle cose esprime il contrario di quello sposalizio al mondo di cui invece parlava Seamus Heaney, ponendo tra sposalizio e divorzio una questione affettiva con il reale. Intendo che l'intoparsi del poeta tra i topi non è ingenua regressione elegiaca – pur se di elegia si abbonda come fan spesso, a volte bene a volte meno, i padani – e nemmeno è stupidissima ecolatria, ma ben motivata e dialettica e pure dialogica massa di acquisizioni nelle frequentazioni culturali del poeta. Frequentazioni che danno vita a una galleria di dediche di amicizie e maestrie letterarie che non fissano solo una galleria un poco cerea di omaggi e rimpianti, dove emerge per umanità e sì qui per affetto non casualmente quello al "nostro" Raimondi che divorziato al mondo non era semmai divorziato da una certa accademia, galleria dicevo che bensì diviene soprattutto una cartografia tutt’altro che muta dentro fuori i versi di Alberto, in suprema tensione di dialogo e di cultura con maestri compagni. Fantasmatici, sì, nell'aria elegiaca che li conserva e sfuma, ma attivi e per così dire convocati in un pur rosicchiato coro dal poeta ad accompagnarlo in quel tentativo affabile e disperato di tener memoria del mondo. Il che però – se la memoria si riduce a regesto elegiaco del vivente, con simpatici scambi tra vegetale e umano, mai del tutto parificati in Bertoni – comunque sfuma il tutto in un medesimo non orizzonte, in una orfanità (figura già inaugurata da Rimbaud, e non certo ieri) insomma in un destino da topi che contempla la letteratura come "memoria parallela" alla storia apparentemente chiara di eventi e biografie. Ma la memoria, sappiamo, non è puro archivio e registro, bensì immaginazione e inchiesta sul senso che le antecede e la inquieta sulla possibilità di un orizzonte di eventi e di loro trama misteriosa. E dunque ecco, dicevo, Bertoni credo sospetti che la poesia ridotta a memoria elegiaca perda di interesse e per questo, montalianamente, accede talora al numinoso, alla dissimulazione teologica, a certe soglie che – tra dolore e interrogazione – per quanto lui stesso le ricopra di fogliame letterario e di qualche consumata ironia, recano segni misteriosi, sentenze, agnizioni. Il che se non fa fuggire i topi, li agita. E l'isola peraltro esiste, ironia della sorte o doppiogiochismo poetico, al di là delle citazioni letterarie, e pare un luogo non senza amenità nell'arcipelago toscano. Abile nell'esercizio del tragico con sordina, il Bertoni del realismo padano intento a abitare con novecentesca eleganza l'oscurità (c'è molto buio dissimulato appunto in tante poesie) sceglie – se scelta ha – di consegnarci uno sguardo senza orizzonte e orfano, una poesia color topo in un mondo color topo, come già voleva Montale, ma con meno intensa screziante e lampeggiante buità o fulgore. Consegnandosi consapevole dunque alla minorità del neopetrarchismo italico ma con una sincerità che ad altri difetta, e con taluni brividi di memoria che brucia la sua materia e va verso l'immemorabile. Quella zona appunto dove Montale ha invece seminato i suoi diligenti scolari.

Con altra intensità, piglio, sperdutezza, e pure con genere d'altro rapporto con la consapevolezza letteraria – diremmo più animale – Rossella Pretto si mette invece sulle tracce di sepolcri e tracce legati al suo ossessivo Lady Macbeth. E così avvoltolandosi e quasi graffiandosi con quei versi e figure, e con essi dialogando, e delirando continuamente per cento e più pagine anche laddove pare raccontare amabilmente di piccoli pub, di incontri gentili e coincidenze, la forsennata viandante trapassa la sua propria oscurità, che ha molti nomi e un nome solo. Non prova ad ammansirla in una memoria elegiaca senza orizzonte, assuefatta, topescamente, e se qualcosa rosicchia, è l'osso di ombra della sua solitudine – pur se alza ogni tanto a un "tu" uno strido come d'uccello addolcito o perso dalle brume. Ma è, dicevo, la forsennata viandante decisa non solo o non tanto a trovar reperti e simulacri, bensì a forare quel buio che nella vicenda della Lady dilaga in lei e attraverso di lei. E così il lettore di queste pagine dove trattenute confessioni, descrizioni trasognate di un viaggio in Scozia, pastiche letterari e fulminanti annotazioni critiche esistenziali e culturali si trova in un ambito che nulla pare a che fare con i nutrimenti della nostrana poesia, a cui Rossella pur appartiene con una voce teetral-terrifica e con sapienza di traduttrice. Appartiene? O forse traversa, furiosa e dolce come solo chi vive ai bordi della Nebbia sa essere coi volti delle cose, e di tali volti paurosa. Così il libro, che parrebbe una deviazione, un gioco, se non fosse così maledettamente puntato al bersaglio grosso della vita, e dunque invece pare una stella caduta da chissà dove, un meteorite di sapienza accesa caduto nel cauto ron ron delle lettere nostrane, appassionate al proprio ombelico. Ed ecco in questo meteorite di donna-libro che cerca una salvezza in se stessa e in se stessa non troverà, perché crede che la salvezza sia la purezza e ormai quella lei l'ha persa, come tutti come tutti, ed è stata anche lei Lady M, la si vede andare e venire tra isole e Edimburgo. E le si vorrebbe dire: non inseguire l'orizzonte, avanti o a ritroso in te. Lasciatemi abbracciare, c'è già. E invece lei non si lascia abbracciare e fa la cosa che fin dall'inizio le spingeva in gola e nella ferita pancia: si confessa, si confessa infine all'uomo orco, infine, e confessa di figli non fatti nascere, di amori rotti, confessa di essere non come gli altri (chi, gli altri chi?) confessa in un colmo di narcisismo e di debolezza, e di intelligenza e di ottusità, confessa la propria vita e degli antenati come fosse una colpa e qui così abbranca (a parole? a parole?) il male d'essere e pare reciderlo. Reciderlo? O sta solo correndo, ancora, nell'oscurità. E il teatro si moltiplica e lei in tutti i teatri? Non l'autrice forse, ma questa viandante forsennata è un personaggio da poema tragico o forse no. Se lo sta scrivendo addosso, Rossella? O alzerà gli occhi – un golfo? Non più un'isola o streghe e regine... Basta con il tragico nord che il cattolicissimo Shakespeare sa non a caso ritrarre così nei precipizi senza grazia?
Un testo che inquieta e appassiona. C'entra con la poesia? E se no, cosa è la poesia?

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