“Affrontare la gioia da soli” di Francesco Tomada

di Melania Panico

Francesco Tomada, Affrontare la gioia da soli, Samuele editore, 2021

 

“Mio nonno ripeteva di continuo/ nella vita bisogna stare sempre/ con la schiena dritta”.
Uno dei versi iniziali della bella raccolta di Francesco Tomada, Affrontare la gioia da soli, ci racconta dell’ostinazione, come appunto quella dei cipressi che tendono sempre verso l’alto, non come atto di forza ma come atto di comprensione, ascolto.
Il libro di Tomada si muove entro due grandi linee temporali: il passato che serve da bacino e il presente che non si può davvero raccontare.
Affrontare la gioia da soli è un libro in cui il racconto di sé si eleva oltre la linea strettamente emozionale o addirittura dell’autocompiacimento come spesso accade per molta poesia che alcuni definirebbero confessionale. L’autenticità è un elemento che viene fuori quando non si smette di indagare, anche quando il poeta racconta un evento apparentemente marginale. Dico apparentemente perché nulla di ciò che colpisce gli occhi di chi racconta può essere davvero marginale, se lo si sa rendere. E Tomada ci riesce.
Gioia come qualcosa a cui non si è pronti, che si deve elaborare.
Soprattutto è stare con i piedi nel presente: “amare è un verbo che ha senso soltanto al presente”.
Abbiamo detto della tensione verso l’alto, come quella degli alberi, i cipressi sempreverdi che si ergono senza tempo eppure delineando lo spazio. Eppure questa tensione non è mai rottura: fendere l’aria senza guastarla è arte per pochi. La raccolta è pervasa da un senso di finitezza ma anche da una temerarietà della parola “semplice”, dove il termine semplice racchiude ciò a cui il lettore contemporaneo forse deve ancora prepararsi: la linearità.

Quanta ostinazione nei cipressi
altre piante perdono le foglie
loro invece no, che non sia mai
mio nonno ripeteva di continuo:
nella vita bisogna stare sempre
con la schiena diritta
dicono che gli alberi sappiano ascoltare
ed eccoli nel grigio di novembre
rigidi e puntati verso l’alto
come se dovessero
tenere su le nuvole

V. (A CASA di NURA E AHMED, A POTOCARI)

Dopo che hanno assassinato mio padre mia madre e mio fratello
pensavo di avere visto tutto
e invece no
un giorno i serbi hanno lanciato alcuni scaldabagno
pieni di esplosivo chiodi e pezzi di vetro
uno è scoppiato in quel prato e cento metri più in là
ha ucciso una bambina di cinque anni
quando sono andato a raccoglierla da terra
le mie mani sono entrate dentro al suo torace
Nura mette i piatti sporchi nel lavello e sorride silenziosa
il suo Ahmed ha bisogno di parlare e alle nove di domenica mattina
è già alla terza rakia ma cosa gli vuoi dire:
di un uomo così
si può solo ringraziare
che ancora si sforzi di amare

VIENE BUIO PRESTO

Il tavolo con i piatti sporchi della cena
una bottiglia di vino bevuta a metà
e io penso a quando giuravamo
di restare insieme per sempre

abbiamo mentito

l’eternità non esiste

amare è un verbo che ha senso soltanto al presente
così prima che tu possa sparecchiare
allungo la mia mano per stringere la tua
come i bambini che non vogliono dormire

perché hanno paura

di non svegliarsi più

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