di Pietro Cagni
Anch’io voglio scrivere la mia omelia. Questo è il funerale di Shane MacGowan, cantante del gruppo anglo-irlandese The Pogues.
Cento acidi al giorno, per anni («I mean, I have no idea how a human being could survive at that»). Un manuale di farmacologia per consultare gli effetti di ogni sostanza. Usarle tutte. Ubriaco sempre, sorridente, terrificante. Schiavo del battesimo come Giovanni Testori, fragile, libero, devastato, senza denti, disponibile a consumare la propria vita. Demolitore punk di ogni melodia, aggrappato al microfono e al bicchiere e alla sigaretta fino a rendere intensa ogni melodia, meravigliosa. Così Victoria, la donna che ha diviso con lui tutta la vita e ne ha amato il corpo, la presenza e, come dice lei, l’anima, adesso che Shane è chiuso nella sua bara di vimini, in una cesta quasi una culla, nei saluti finali non trova altre spiegazioni per comprendere suo marito: I think that he was to trying to convey to people that there is something in Jesus…that’s worth, that’s worth valuing, it’s worth exploring. That Jesus is a real force. lI suo uomo allucinato, caritatevole, visionario, che dopo una giornata passata con lei nella stessa stanza poteva dirle, con stupore, «sono così contento di vederti».
Le spalle piegate di suo padre, che ha il viso raccolto nella barba bianchissima. Papà di uno dei grandi, tra i poeti adesso fieramente parte della tradizione del suo popolo, che ora lo aspetta assiepato fuori per le strade di Dublino. Cosa pensa di sé quest’uomo mentre l’altra sua figlia ricorda le giornate passate ad ascoltare, dalla sua voce, i canti tradizionali irlandesi. È seduto in prima fila e sta zitto, si tiene la testa ogni tanto, non sente bene, sopravvive a suo figlio e non è più suo padre, tanto sprofondato nell’ammirazione per una vicenda umana che lo ha superato, da lui è scaturita e non è più sua. Da lui Shane aveva ricevuto i canti irlandesi, l’adesione al partito dei lavoratori Sinn Fein e una fede forte. Così si accostava ogni giorno alla comunione e tremava di godimento («Shane got an actual, physical, visceral buzz out of the Holy Communion» l’eucarestia), pregando al mattino per chiunque fosse entrato nei suoi occhi, persino attraverso i film alla tv. Fino all’amore regalato a tutti, fino al perdono di tutti, ad ali spiegate.
Per chi come me partecipa a questo funerale su youtube, tutta la Chiesa cattolica assume il nome e il volto di padre Patrick “Pat” Gilbert. Death is not the end, ripete nella predica, perché è quello che Shane ha vissuto, nella sua dedizione verso i derelitti. Pat Gilbert, aiuto-prete della parrocchia di Nenagh, cittadina di 8000 abitanti, diocesi di Killaloe, Tipperary. Prete di una chiesa inquieta, secolarizzata, a pezzi dopo decenni di guerra e uno scandalo mostruoso. Cresciuto ascoltando i Lizzy, gli Horslips, i Rats, gli Undertones e i Pogues, perché in loro era la più credibile espressione della «uneasiness, displeasure, our uncomfortable assessment of what was happening all around us». Quella musica che è stata casa per tanti. Un uomo della Chiesa, questo corpo assurdo e inestimabile a Deo factus est attraverso i secoli e la storia, chiesa degli artisti, che accoglie tutti e tutto salva.
Padre Pat che accoglie sull’altare e presenta solennemente alla comunità gli oggetti di una lunga e commovente processione iniziale. Victoria chiama queste offerte a una a una, insieme agli amici che li portano: album musicali, la maglia dei Shannon Rovers, un Buddha, James Joyce, una statuetta della Madonna (agli amici che lo raggiungevano negli ultimi mesi, tra il letto e l’icona, diceva «stai bloccando la Madonna»), un tamburo irlandese e una tastiera Casio, un pacco di thé, la foto del suo matrimonio, il piatto che Shane si è dato in testa un paio di volte durante un concerto. La vita insomma che si è agitata ed è stata goduta fino al midollo. Victoria che ride meravigliosamente e chiama gli amici e ci conduce tutti nella grazia luminosa che le è data. Padre Pat alla fine chiederà per i concelebranti e il coro e il servizio d’ordine gli applausi della folla, come in un concerto. Così conclude questa messa pazzesca che è rimasta ad ogni istante una messa cattolica, senza effetti speciali, sentimentalismi: liturgia fatta di parole contate e gesti rastremati nel dialogo col Mistero, in cui le cose affiorano come segni efficaci del divino. Una messa, popolare e commossa, di applausi e vuoti, attraversata dalle canzoni di Shane MacGowan.
Microfoni per le voci e gli strumenti, violini e viole, mandolino, banjo, fisarmonica, un minimo set di batteria, il flauto di Spider Stacy ancora una volta, un pianoforte e una sola chitarra a turno, quella di Glen Hansard, a cui la famiglia ha chiesto di coordinare i musicisti. Nick Cave, che aveva cantato con Shane la più deragliata What a wonderful world, ora intona A rainy night in Soho. Mundy e Camille O’Sullivan incarnano i due amanti di Haunted. La voce rotta di Camille, poi diventa turbinosa, violenta: «I want to be haunted by the ghost / of your precious love». Quell’amore che svela adesso tutta la sua trasparenza in quello dell’Holy Ghost. L’uno è forma dell’altro, come nel Cantico dei Cantici. Camille a volte tocca Mundy, gli poggia la mano sulla spalla. È un funerale e una festa, così prima di finire il silenzio si scioglie in danza: gli amici saltano le panche e ballano Fairytale of New York. Victoria certamente già conosce l’assenza che la attende più avanti, ma ora ha deciso di lasciare lo spazio alla gratitudine. Le canzoni di Shane, che appena nate erano già anonime, imbevute della tradizione di un popolo, cantate da tutti, possedute da tutti, risuonano gioiosamente nel tempio.
La risata di Shane MacGowan era vuota, tutta fiato. Nessuno rideva come lui: che anche la nostra bocca sia una casa infestata, che il fantasma ci consumi la testa, la risata, i baci e le parole. Che la chiesa sia ancora la casa accogliente e buona, che la vita possa trovare compimento e fecondità. Un funerale che restituisce speranza di questo è, forse, un miracolo di Shane MacGowan.