di Francesca Delvecchio
L’adatto vocabolario di ogni specie è il libro di poesie vincitore, nel 2015, del concorso di scrittura sociale “Luce a Sud Est” ed edito nel 2016 dall’editore Pietre Vive.
L’autore, Alessandro Silva, ne scandisce l’andamento con un ritmo spezzato, di versi rotti e con un linguaggio che alterna due stili e due mondi: quello della realtà giornalistica, di cronaca e quello dei versi scavati in una quotidianità che letteralmente toglie il respiro.
Il libro inizia con alcuni brevi pezzi giornalistici che localizzano il luogo – l’Ilva di Taranto – e il tempo del poetare: i mesi di giugno, luglio e agosto dell’anno 2015.
L’Ilva viene fondata nel 1960 con il nome di Italsider, risultato dell’unione della società Ilva, nata nel 1905, e delle Acciaierie Cornigliano. È il quarto polo siderurgico d’Italia in ordine di tempo, ma diviene negli anni il più grande. Viene costruita vicino alla città di Taranto, così vicino che non c’è nemmeno un appezzamento di terra che possa fare da cuscinetto o suddividere le due. Col tempo la città è cresciuta attorno alle ciminiere di quella fabbrica di acciaio, chiesta in massa dalla popolazione per la possibilità di ottenere decine di migliaia di posti fissi. Oggi l’Ilva sembra in ripresa, acquisita dal gruppo lussemburghese ArcelorMittal, grande produttore d’acciaio, con la promessa di assumere 10.700 lavoratori dopo i licenziamenti e le casse integrazioni degli anni precedenti.
Tuttavia gli episodi del 2015 sono stati al centro del dibattito sociale e giornalistico per il loro peso negativo in termini di diritti al lavoro e di battaglie sul fronte della salute.
Le vicende, delineate in questi versi, sono viste con gli occhi di un operaio che lì lavora e annota giorno dopo giorno quello che succede.
E cosa succede?
A Taranto Non si vedono case ma una colonna / alzata per trentacinque metri di cielo, / quel tanto che basta a oscurare / il sole. Chi lavora nella fabbrica, grande due volte la città, ha occhi rauchi e cicatrici aperte di labbra, con Scarpe da anni radicate e unghie / sul viso tra sudori di nausee da caffè. / Uomini di un sonno nato a malapena, mentre l’io poetico, in “Azzardo, o il racconto iniziato” – poesia piena di fisicità che diventa paradigma di una poesia sociale di denuncia e afflizione –, ci avverte:
I miei ricordi iniziano qua e
finiscono scivolati sui corpi
di chi spacca a terra la mano
e ferisce di catrame il labbro.
Qualcosa non accade come
dovrebbe. Si è infranto il divieto
della spada sulla pelle delle schiene
ed è rischio avvelenato di battaglia.
Una treccia di scintille in aria
scoppia in una lunga tenebra
di fumo che si arpiglia in gola e
umilia gli occhi di un lunghissimo
sonno.
Mi piego a raccogliere
pietre di strada e a pregare
furioso per una vita buona
dove tutto parla di liberazione
disperata esigenza che gira
come il vento gira la fiamma.
La disperata esigenza di una vita buona che parla di liberazione, deriva da fatti reali che Silva denuda con versi lucidi che aleggiano nei fiati degli operai coinvolti. Il suo è quasi un diario e dei giorni più duri, quelli in cui accadono notizie da telegiornale, lui mette le date, perché non ci siano errori e non si dimentichi di quel che è successo. In fondo, anche la maggior parte delle poesie de L’Allegria riporta la data e Ungaretti lo fa per contare i giorni della guerra. Pure all’Ilva c’è la guerra, una guerra sociale, ambientale, mediatica, uno scontro continuo tra governo, magistratura, sindacati e la gente che a Taranto passa la vita sotto un’atmosfera carica di polveri sottili di biossido di azoto, anidride solforosa e acido cloridrico.
Nel reparto dell’altoforno 2, l’8 giugno 2015, accade un incidente grave: un operaio, investito da una colata incandescente di ghisa, ha ustioni di 3° grado sul 90% del corpo. La voce poetica, con un tono che nasconde la rabbia sotto lo sdegno e la traduce in protesta, racconta che morirà due volte: la prima investito sotto la ghisa, la seconda in ospedale dopo quattro giorni di agonia.
C’era un morto e nessun messia
per motivi di sicurezza. Quaggiù
è la terra in fondo un sudicio
ossario e, del nostro tocco o sguardo
poco importa a qualcuno.
Da Qualcuno che cade
Scorrono in rassegna i decreti d’urgenza “Salva Ilva” che si susseguono in realtà fin dal 2011 per permettere alla fabbrica di continuare a lavorare, nonostante Procura e Magistrati vogliano chiuderla e sia stato emanato un sequestro senza facoltà d’uso per l’inquinamento ambientale e la mancanza di parametri di sicurezza per chi ci lavora.
Ma ormai Taranto vive grazie all’Ilva. Chiuderla equivale a creare migliaia di disoccupati.
PROVVEDIMENTO DI SPEGNIMENTO I
Finito il gettito a strati
la fornace è stata cauterizzata.
Freddo ossigeno è rimasto
il tozzo di carbone che cuoce
su sé stesso. Spiriti e rottami
sul fondo riempiono a sibili
la ferita dell’aria.
Stanno fermi, gli operai, sotto
i piedi l’ultima turbolenza
della bocca obbedita al silenzio.
Gridò a una specie di dio, uno
di loro, rivolgendosi all’alto.
In tutti quegli anni gli sono venuti
rimboccati di cenere, i denti
e maniche sporche, a brandelli.
Non si lascia trovare la faccia e c’è
chi dice sia un amico rischioso
[cammina un passo avanti il buio].
Lo sciacallo e il tafano non trattano
sulla provenienza dell’osso, se di
bestia o umano. Hanno la testa
tradotta da persone per bene,
li schivano grida e sassi. Benedetto
il dono di libertà che si conquista urlando.
Dunque, il blitz dei carabinieri e il cronoprogramma che prevede lo spegnimento dell’impianto entro il 24 luglio 2015 sono solo tappe di un percorso lungo e senza fine.
Qualunque cosa accada / sembra scritta sull’aqua e / non lascia cicatrice.
Si vive in un paradosso, mentre il raro tumore che colpisce il mesotelio miete le sue vittime, senza che nessuno prenda provvedimenti per sanificare l’aria o rivedere i metodi di riciclo e Il mare è una tela di fili d’acciaio, / il cielo un liquido specchio. E se ognuno / oscilla è perché il vento passa i confini. / Certi giorni mi sembra di cadere / da cielo a cielo a ricordare ogni cosa.
MESOTELIOMA PLEURICO II
So come muoiono le farfalle
come un uomo disteso di schiena su un prato
[...]
allargano le ali sopra l’erba
per allontanare la fatica
e pensano per sempre di volare.
Francesco Tomada, So come muoiono le farfalle
L’epidermide si scuce dal derma
[dal motore oscuro di nervi]
a manciate si giocano i capelli
mossi e toccati da polvere e unghie.
Torni magro e piccino, bocca secca
nell’acqua di un bicchiere, denti
di farina. Cadono farfalle quando
la morte soffre l’insonnia e dice
a chiunque si svegli che la vita
sarà voce di malanno, d’ora innanzi.
A dare sangue da conficcare
nella pelle mutevole di un angelo.
La poesia di Silva è attenta, si sente osservata dalla legge e dalla società, ma riesce a prestare attenzione laddove basta poco perché una situazione o un evento qualunque vengano banalizzati con la forza del pensiero comune, quel modo di giudicare e riassumere in un giudizio ingiusto che abbiamo tutti, quando non conosciamo in profondità qualcosa o non ne siamo bene informati.
C’è un adatto vocabolario per ogni specie lungo tutto il libro, versi che identificano voci diverse anche fuori dalla fabbrica, come il mondo femminile che perde la fertilità o vede i propri figli ammalarsi prima del tempo, la realtà di ragazzi e ragazze più giovani, disoccupati, che nascondono la rabbia dietro il fumo delle sigarette e per cui è meglio prendersi un tumore piuttosto che rimanere senza lavoro. L’atmosfera contamina anche la vegetazione e la carne degli animali. Non si è sicuri di quel che si mangia.
Ci sono due parole che attraversano la raccolta e ricorrono periodicamente a simboleggiare i due elementi vitali che mancano o hanno una debole presenza: la luce e l’aria.
La luce non è solo quella del sole che non riesce a filtrare le nubi nere – Condizioni costanti di deboli / venti germogliano sulle nubi / in arborescenze di polveri, / benzene e vapori d’acciaio –, ma anche la luce dell’essere umano – Da impuri bagliori ci si lascia / bruciare, svogliati [urto di luce / conficcato in un recesso di Terra] – soffocata da tutto il resto.
L’aria è il fiato che non c’è, è il respiro denso che porta vita e morte insieme.
Per la salubrità dell’aria e la folta
macchia di ulivi e pini, si diceva,
il quartiere viveva prima sotto
un’ebrezza di cielo chiaro.
Le finestre che guardano al mare
aprono buchi dove l’aria scavata
riposa. La città ora cade e giace
sotto un belato di cielo nero
che consuma memorie di sangue.
Da Immobile, sotto
Taranto è la Donna che dorme e ti guarda, è la Bella avvelenata.
Da cinquant’anni sporca bellezza di / cane sciolto che ringhia all’immondizia.
Alessandro Silva (Parma, 1976), laureato in Scienze Biologiche, con un Dottorato in Biologia e Patologia molecolare, ha esercitato per anni attività di ricerca in ambito scientifico. Dal 2014 lavora, in Parma, come creatore di contenuti multimediali per blog e pagine social per Aziende Private.
L’adatto vocabolario di ogni specie, Pietre Vive Editore, e silloge finalista al Premio Pagliarani 2017, è la sua opera prima.
Il libro è corredato delle illustrazioni di Giovanni Munari.