di Fabio Barone
Federica D’Amato, A imitazione dell’acqua, Edizioni Nottetempo, 2017
[…] il cielo muove torrenti
verso la preghiera dei pazienti,
dentro la pazienza degli attenti
a imitazione dell’acqua.
È la metamorfosi l’elemento primordiale di questo libro, l’acqua suo passaggio dominatore. Diviso in tre sezioni dai titoli evocativi, “La sete dei pesci”, “Addio addio” ed “A imitazione dell’acqua”, come riti di passaggio le parole della D’Amato fluiscono dal blu dell’insondato generando nuova vita:
Sapevo tutto sin dall’inizio
perché nata da formiche
col volo che cantava senza pace
giugno e le poesie delle cicale.
Furono lotte a fiato corto,
le scappate sopra le colline
sognare un tiro d’oltremare
ma sapere era sapere
restando signorile
l’ammonimento del dovere.
Non lo so cosa volevo
se il rovescio dell’acqua
o continuare la testa tra le mani
arrendermi allo sgocciolare via via
d’una madre non avendo più niente
da bere, prestare finalmente il viso
all’intagliatore del destino.
***
Avevamo scritto un libro
affinché tu restassi nascosto
e mai sarebbe giunta l’ora
di quando la figlia si sposa,
taglia il nastro e se ne va.
Avevamo scritto un libro
solo per te
e per la pietra bianca del cammino
che spaccandosi sulla tua strada suonava al vento
intonava i secoli del tempo
e più si scriveva e più si perdeva
quel suono universale di silenzio
che entrava nel sentire come lana
e più si scriveva e più si piangeva
il capo d’acqua
l’ora prima delle cose
l’innocente vittoria delle rose
di cui non sapevamo
più niente,
nemmeno il nome o la parte d’amore
la pazienza che ci faceva ancora
giovani, quell’indecenza di sperare
che il verbo sarebbe stato nostro
ancora una volta.
Il pianto come fonte di purificazione raggiunto per mezzo della parola, vuol dire penetrare il varco oscuro in cui si cattura la “corda della voce” e in cui si nasconde, per usare un’altra espressione di Valéry, “la sorgente delle lagrime”.
La sete dei pesci contiene in sé il sogno di partecipare alla vita, e dal silenzio che «entrava nel sentire come lana», possono nascere parole che quel silenzio rende denso, caldo, profetico:
Lavorare, essere amati, un po’ di pane
offerto dal sole del paese, il mare
o la meccanica celeste dei solstizi.
Chiedere questo senza vergogna
indegnamente al centro della piazza
mentre riporto la palla,
e il fratello disegna sua sorella le dice
in segreto gioca, sorella, ti prego gioca:
noi non chiederemo altro che questo.
Desiderare di essere uno col tutto, imbattersi nel limite, ma volere «l’io in tutte le cose», «cantare le prime cose», alzarsi «anzitempo uscire / inseguire le albe cantare / come demente lavorare fino / al pane, fino alla linea delle mani», e sperare:
Se è vero che infine solo
chi tace sarà ascoltato, solo
chi rinuncia verrà ricompensato
e il dolore sciolto, perdonato, allora
chiedo a cosa servirà quel giorno
il paradiso, a cosa se non ne avremo
più bisogno, se è ora che dovrebbe
il prodigio ritornare a farsi viso,
mappa del sorriso da cui volavano
i lineamenti del mondo e i saluti
legati delle mani nelle tasche,
la fiammella cantabile di un giorno
viva fino a sera:
non domani,
non in altro corpo
ma adesso.
La versificazione della D’Amato è una concatenazione di immagine in immagine, il passaggio dall’una all’altra evoca il canto, il ritmo musicale del suo eterno scorrere. Un canto che sa farsi silenzio e ascolto del mistero e lo stupore del mondo:
Noi sappiamo che sei degli orti
il tegumento e delle semine
i viaggi del vento
e delle vele la meta
di un muto compimento.
Tu non sei come noi
eppure sai quasi tutto
eppure resti il tonfo
che invita silenzio
intorno al cadere del frutto.
Cosa resta al poeta di questo ascolto? Dell’incalzare dello stupore che si fa corpo, tempo, voce, rimangono i suoi versi, la testimonianza di aver partecipato, percepito, a imitazione dell’acqua:
Ci saranno, sapete, giorni di rime
buone dove si accorderanno tutte le cose
e nemmeno serviranno le rose ma
solo il lungo asilo di un’amata voce
la sera, prima del sonno, dopo il lavoro
a raccontarvi la chiara storia
del re e della sua pipa
del bimbo perso nella biglia
e del prete che tradisce la sua bibbia.
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